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Dove / Where quando/ when

E’ nato il jardin situationniste / the situationist garden was born.

tra Cosio d'Arroscia e Onzo, passando per Vendone e....


Ansgar Elde, Ceramica . 1990

le opere esposte sono visibili qui https://flic.kr/s/aHBqjBENLb

Nasce nella Valle Arroscia un ” Jardin Situationniste”,  format ispirato al fortunato libro di Asger Jorn ” Le Jardin d’Albisola”. La rete di spazi espositivi organizzata dalle Associazioni MAP museo di Arti Primarie e SituaZioni Tribaliglobali ospita un insieme di eventi legati alla esperienza artistica e culturale attiva  nella seconda metà del secolo scorso nella Liguria di Ponente, tra Albisola e Cosio d’Arroscia. Tra Onzo e Cosio, dove sono già esposte in modo permanente opere di  Alechinsky, Appel, Corneille, Jorn, Vandercam,  Rainer Kriester e Henry Moore, sono visibili fino al 30 ottobre 2024 opere di  Carlos Carlè, Asgar Elde, Enzo L’Acqua e Saba Telli. Le opere d’arte moderna sono esposte in dialogo permanente con opere di arte tradizionale extraeuropea provenienti da Africa, Asia, Indonesia, Oceania . E’ possibile consultare una corposa biblioteca di settore, ed ogni evento è supportato da cataloghi consultabili anche on line. . La direzione artistica degli eventi è di Giuliano Arnaldi.

Où est le jardin.. ?

Un filo rosso mai spezzato lega la creatività di artisti che per tutto il Novecento scelsero quel triangolo magico tra Albisola, Calice Ligure e Cosio d’Arroscia come speciale casa dell’anima. Non solo i Futuristi, Lam, Fontana, Jorn – per citare i più “blasonati” – ma un popolo di creativi respirò quel soffio vitale, e diede un corpo alla propria immaginazione . La loro storia è forse ancora troppo ristretta nei confini del collezionismo locale, mentre risulterebbe di grande interesse generale  per capire cosa accadde in quegli anni, ben oltre i confini locali. La storia dei Situazionisti è in questo senso emblematica; quel vento potente partì da Cosio d’Arroscia ma incendiò prima Parigi e poi il mondo intero, prova provata che l’arte non è solo un grazioso orpello ma formidabile energia sovversiva. Nel “Jardin”  che abbiamo creato tra Cosio e Onzo, ne trovate alcuni, e ne troverete sempre più; nei limiti delle nostre possibilità l’intenzione è quella di creare dei “focus”, delle sintetiche retrospettive su singoli Artisti, senza alcuna pretesa se non quella di accendere una luce.”  L’evento è iniziato domenica 1 settembre a Onzo presso la Locanda Tribaleglobale con Saba telli, che quell’epoca la visse  con rara intensità e la testimoniò con ancor più rara bellezza, attraverso la sua vita e il suo lavoro; in consultazione anche alcuni rari cataloghi e testi legati al lavoro dell’Artista, provenienti da una collezione privata savonese, ed è in preparazione un catalogo che raccoglie la rara ed inedita documentazione;  Dal 15 settembre a Cosio d’Arroscia la galleria derive ospita una “reunion” – come usa dire oggi- di alcuni tra i più interessati manipolatori di materie di quegli anni: Carlos Carlè, Asgar Elde, Enzo L’Acqua e lo stesso Sabatelli per l’aspetto ceramico. 

A “Jardin Situationniste” is born in the Arroscia Valley, a format inspired by the successful book by Asger Jorn “Le Jardin d’Albisola”. The network of exhibition spaces organized by the Associations MAP museo di Arti Primarie and SituaZioni Tribaliglobali hosts a series of events linked to the artistic and cultural experience active in the second half of the last century in Western Liguria, between Albisola and Cosio d’Arroscia. Between Onzo and Cosio, where works by Alechinsky, Appel, Corneille, Jorn, Vandercam, Rainer Kriester and Henry Moore are already permanently exhibited, works by Carlos Carlè, Asgar Elde, Enzo L’Acqua and Saba Telli are visible until 30 October 2024. The modern works of art are exhibited in permanent dialogue with works of traditional non-European art from Africa, Asia, Indonesia, Oceania. It is possible to consult a substantial sector library, and each event is supported by catalogues that can also be consulted online. The artistic direction of the events is by Giuliano Arnaldi.

Où est le jardin.. ?

An unbroken red thread links the creativity of artists who throughout the twentieth century chose that magical triangle between Albisola, Calice Ligure and Cosio d’Arroscia as a special home for the soul. Not only the Futurists, Lam, Fontana, Jorn – to name the most “noble” – but a population of creatives breathed that vital breath, and gave a body to their imagination. Their story is perhaps still too narrow within the confines of local collecting, while it would be of great general interest to understand what happened in those years, well beyond the local borders. The story of the Situationists is emblematic in this sense; that powerful wind started from Cosio d’Arroscia but first set Paris on fire and then the entire world, proof that art is not just a pretty tinsel but a formidable subversive energy. In the “Jardin” that we have created between Cosio and Onzo, you will find some, and you will always find more; to the extent of our possibilities, the intention is to create “focuses”, synthetic retrospectives on individual Artists, without any pretension other than that of turning on a light.” The event began on Sunday 1 September in Onzo at the Locanda Tribaleglobale with Sabatelli, who lived that era with rare intensity and bore witness to it with even rarer beauty, through his life and his work; some rare catalogues and texts related to the Artist’s work, from a private collection in Savona, were also available for consultation, and a catalogue is being prepared that collects the rare and unpublished documentation; From 15 September in Cosio d’Arroscia the Derive gallery hosts a “reunion” – as they say today – of some of the most interested manipulators of materials of those years: Carlos Carlè, Asgar Elde, Enzo L’Acqua and Sabatelli himself for the ceramic aspect.

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Dove / Where

Sapere vedere, oltre la società dello spettacolo /Knowing how to see, Beyond the society of the spectacle.

Cosio d’Arroscia, casa degli artisti, sala verde. Fino al 30 settembre 2024

1. Sapere vedere. C’è un aspetto centrale ed indispensabile nell’esperienza percettiva? Se esiste è legato allo sguardo. Non mi riferisco al semplice guardare, ma a tutto ciò che implica sapere vedere. Ci si guarda dentro prima di guardare fuori, cosi come ciò che vediamo nutre il nostro essere più intimo. E spesso la realtà non è ciò che appare . 

Un corpo, un volto definiscono un carattere, lo animano rimandando ad un grumo di sensazione che nascono dalla inesorabile ed istintiva associazione di idee, conferendo   consistenza ontologica alla forma. Senza ricorrere alle esasperazioni di Lombroso si può dire che la, fisiognomica abbia un suo perché. Sono gli occhi a guardare? No, gli occhi sono strumento, e come diceva Saint-Exupéry, l’essenziale è invisibile agli occhi. 

Ma gli occhi parlano, sono lo specchio dell’anima e ci dicono chi siamo. E altrove? Nel mondo degli “altri” come si evoca la potenza dello sguardo? Uso l’espressione potenza perché lo sguardo profondo – quello alla Saint-Exupéry per intenderci – non prevede necessariamente una osservazione diretta della realtà per come si manifesta, ma per come essa agisce in noi evocando uno stato di coscienza. 

In realtà la funzione profonda non cambia: anche il realismo dell’arte occidentale funziona solo se evoca stati di coscienza, esattamente come l’alfabeto sintetico usato dai linguaggi degli artisti extraeuropei.
Ecco che le fessure di una maschera Dan o Punu, lo sguardo dipinto di un antico sapiente evocato in un dipinto del XVII secolo parlano di sentimenti che ci appartengono, che riconosciamo grazie ad un misterioso linguaggio di forma, colore e materia che dà vita ed emozione; è il risultato del lavoro dei nostri neuroni/specchio, e ci rende in un lampo consapevoli di un Mistero più grande di noi, anche se fatto su misura per noi, per essere compreso da noi, per essere usato da noi, per aiutarci a capire e governare ciò che di sorprendentemente misterioso ci accade. 

2. Oltre la società dello spettacolo. Un antico dipinto, due maschere africane, la tv Zéo  disegnata da Philippe Stark per Thomson negli anni 90 del secolo scorso, completa di telecomando. Sono questi gli elemento alfabetici usati da Giuliano Arnaldi ed Emilio Grollero per avviare un dialogo sulla differenza tra vedere e guardare, più in generale tra agire e subire nella società dello spettacolo. La vecchia tv è come si dice oggi un “pezzo di design”. Non essendoci segnale gracchia ed emette uno sfarfallio costante, efficace testimone della subalternità passiva e totale dello spettatore. Il telecomando già rimanda ad  altro; è disegnato per farci pensare d’istinto  ad una faccia, curiosamente ospitata in  una forma fallica. La potenza evocativa emerge però in modo consapevole nelle altre opere esposte, pur nella diversità degli alfabeti usati. Le antiche maschere   Punu e Dan parlano la lingua archetipale delle culture africane, che affidano all’essenzialità  il compito di evocare stati di coscienza come l’altro elemento, un talismano etiope posto al centro della stanza; rimanda ad antiche parole destinate a curare il corpo e l’anima. L’antico dipinto attribuito ad Assereto dichiara invece il proprio messaggio in modo esplicito, descrittivo, secondo la tradizione occidentale. In entrambi contesti   bisogna sapere – e volere – vedere, rifiutare il ruolo inumano di spettatori per rivendicare e praticare quello di attori. E’ il potere antico della parola – dal  latino tardo parabŏla , intesa come insegnamento, discorso -, che implica la responsabilità della scelta,  a fare la differenza tra società umana e società dello spettacolo. Prende corpo il monito scritto da Guy Debord nel 1967, e riscritto oggi sullo schermo della TV esposta da Emilio Grollero; la televisione  era agli albori e i social nemmeno immaginati: “l’intera vita della società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso cumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto, si è allontanato un una rappresentazione”.

L’installazione di Emilio Grollero

1. Knowing how to see. Is there a central and indispensable aspect in the perceptual experience? If it exists it is linked to the gaze. I’m not referring to simply looking, but to everything that involves knowing how to see. We look inside before looking outside, just as what we see nourishes our most intimate being. And often reality is not what it appears. 

A body, a face define a character, animate it by referring to a lump of sensation that arises from the inexorable and instinctive association of ideas, giving ontological consistency to the form. Without resorting to Lombroso’s exasperations, it can be said that physiognomy has its own reason. Are the eyes watching? No, the eyes are instruments, and as Saint-Exupéry said, the essential is invisible to the eyes. 

But the eyes speak, they are the mirror of the soul and tell us who we are. And elsewhere? In the world of “others” how is the power of the gaze evoked? I use the expression power because the profound gaze – that of Saint-Exupéry so to speak – does not necessarily involve a direct observation of reality as it manifests itself, but as it acts in us, evoking a state of consciousness. 

In reality, the profound function does not change: even the realism of Western art only works if it evokes states of consciousness, exactly like the synthetic alphabet used by the languages ​​of non-European artists.
Here the cracks of a Dan or Punu mask, the painted gaze of an ancient wise man evoked in a 17th century painting speak of feelings that belong to us, which we recognize thanks to a mysterious language of shape, color and matter that gives life and emotion ; it is the result of the work of our neurons/mirrors, and makes us instantly aware of a Mystery bigger than us, even if tailor-made for us, to be understood by us, to be used by us, to help us understand and govern the surprisingly mysterious things that happen to us.

2. Beyond the society of the spectacle. An ancient painting, two African masks, the Zéo TV designed by Philippe Stark for Thomson in the 90s of the last century, complete with remote control. These are the alphabetical elements used by Giuliano Arnaldi and Emilio Grollero to start a dialogue on the difference between seeing and looking, more generally between acting and suffering in the society of the spectacle. The old TV is, as they say today, a “piece of design”. Since there is no signal, it croaks and emits a constant flicker, an effective witness to the passive and total subordination of the spectator. The remote control already refers to something else; it is designed to make us instinctively think of a face, curiously housed in a phallic shape. However, the evocative power emerges consciously in the other works on display, despite the diversity of the alphabets used. The ancient Punu and Dan masks speak the archetypal language of African cultures, which entrust essentiality with the task of evoking states of consciousness like the other element, an Ethiopian talisman placed in the center of the room; refers to ancient words intended to heal the body and soul. The ancient painting attributed to Assereto instead declares its message in an explicit, descriptive way, according to Western tradition. In both contexts one must know – and want – to see, reject the inhuman role of spectators to claim and practice that of actors. It is the ancient power of the word – from the late Latin parabŏla, understood as teaching, discourse -, which implies the responsibility of choice, that makes the difference between human society and the society of the spectacle. The warning written by Guy Debord in 1967, and rewritten today on the TV screen exposed by Emilio Grollero, takes shape; television was in its infancy and social media was not even imagined: “the entire life of society, in which modern production conditions dominate, announces itself as an immense accumulation of shows. Everything that was directly experienced has receded into a representation.”

Giuliano Arnaldi, Cosio d’Arroscia 5 agosto 2024

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Dove / Where

NOMADISMO

“ L’uomo fu inizialmente nomade; oggi, assimilata la stanzialità ed a causa della mondializzazione, sta diventando “nomade” in un modo nuovo. I nomadi hanno inventato gli elementi basilari della civiltà; gli stanziali l’hanno organizzata. Chi si sposta non è detto che sia “barbaro” ma può essere una forza d’innovazione e di creazione; le società quando si chiudono agli itineranti, agli stranieri, a qualsiasi movimento, declinano. Con le nuove tecnologie del viaggio, reale o virtuale, si aprono nuovi scenari per l’umanità. Giunge a compimento l’egemonia dell’ultimo impero stanziale (gli USA), e incomincia la gara a rimpiazzarlo da parte delle tre forze nomadi di oggi: mercato, democrazia, fede”. Questo è l’incipit di un bel libro di Jaques ATTALI , L’UOMO NOMADE – SPIRALI 2006 – Pur essendo datato, nel senso che negli ultimi dieci anni i fenomeni migratori hanno assunto proporzioni e caratteristiche decisamente epocali, il testo di Attali definisce il perimetro dell’argomento. 

A noi interessa riflettere sulla dimensione estetica di quello che è il nomadismo per eccellenza, almeno nel nostro immaginario, ovvero quello che popola i deserti nord africani. Gli oggetti in uso presso quelle culture testimoniano la “ consueta” , sorprendente bellezza a cui ci hanno abituato le Arti Primarie. Nel caso dei picchetti Tuareg sono forma e segno a parlarci; quelli a forma piatta ed articolata si chiamano Ehel, sono posti all’interno delle tende per sostenere i pannelli Eseber – realizzati in fibra vegetale- e destinati a creare spazi intimi. I picchetti scolpiti a tutto tondo si chiamano  Igem,  sono posti all’esterno della tenda,  ne indicano l’ingresso e ne identificano gli abitanti .  Per i rari Burqua “Arouse” dei Rashaida è la  fantasmagoria di materiali ed oggetti usati per creare questo particolare manufatto ad evocare  antiche narrazioni.  Questi particolari veli nuziali fanno riflettere sui pregiudizi che abbiamo verso le  culture  diverse dalla nostra; essendo Burqua, istintivamente ci rimandano all’idea di oppressione e svilimento della donna; non è così, ed è sufficiente vederli per rendersene conto, apprezzandone la varietà di colori, materiali preziosi, intrecci. Non è coprire il volto o il corpo ad essere opprimente, ma essere obbligate a farlo, e c’è molto meno rispetto verso la donna nella ostentazione mercificata del nudo che si fa in occidente. 

Mentre i Touareg sono ampiamente conosciuti e per certi versi mitizzati, i Rashaida furono  l’ultima minoranza a migrare in Eritrea nel XIX secolo dalla Penisola Arabica.  I loro accampamenti sono prevalentemente presso Massawa, ed oggi possono  essere considerati i testimoni dell’unica cultura eritrea interamente nomade e di lingua araba, fortemente tradizionalista. Di carattere schivo e guerriero, storicamente  pirati e predoni , sono coloro che anticamente si occupavano  della tratta degli schiavi e che ancora oggi gestiscono operativamente il transito nel deserto dei migranti, gli schiavi del XXI secolo. 

“ Man was initially nomadic; today, having assimilated sedentary living and due to globalization, he is becoming “nomadic” in a new way. Nomads invented the basic elements of civilization; the residents organized it. Those who move are not necessarily “barbarian” but can be a force of innovation and creation; When societies close themselves to itinerants, to foreigners, to any movement, they decline. With new travel technologies, real or virtual, new scenarios are opening up for humanity. The hegemony of the last sedentary empire (the USA) comes to fruition, and the race to replace it by today’s three nomadic forces begins: market, democracy, faith”. This is the incipit of a beautiful book by Jaques ATTALI, L’UOMO NOMADE – SPIRALS 2006 – Despite being dated, in the sense that in the last ten years migratory phenomena have taken on decidedly epochal proportions and characteristics, Attali’s text defines the perimeter of the topic.

We are interested in reflecting on the aesthetic dimension of what is the nomadism par excellence, at least in our imagination, that is, that which populates the North African deserts. The objects in use in those cultures bear witness to the “usual”, surprising beauty to which the Primary Arts have accustomed us. In the case of the Tuareg pickets, it is the shape and sign that speak to us; those with a flat and articulated shape are called Ehel, they are placed inside the tents to support the Eseber panels – made of vegetable fiber – and intended to create intimate spaces. The all-round sculpted pegs are called Igem, they are placed outside the tent, they indicate the entrance and identify its inhabitants. For the rare Rashaida Burqua “Arouse” it is the phantasmagoria of materials and objects used to create this particular artefact that evokes ancient narratives. These particular wedding veils make us reflect on the prejudices we have towards cultures different from ours; being Burqua, they instinctively refer us to the idea of oppression and debasement of women; this is not the case, and it is enough to see them to realize this, appreciating the variety of colours, precious materials and weaves. It is not covering the face or the body that is oppressive, but being forced to do so, and there is much less respect towards women in the commodified ostentation of nudity that is done in the West.

While the Touareg are widely known and in some ways mythologized, the Rashaida were the last minority to migrate to Eritrea in the 19th century from the Arabian Peninsula. Their camps are mainly near Massawa, and today they can be considered the witnesses of the only entirely nomadic and Arabic-speaking, strongly traditionalist Eritrean culture. Of a shy and warrior nature, historically pirates and raiders, they are those who in ancient times dealt with the slave trade and who still today operationally manage the transit of migrants in the desert, the slaves of the 21st century. 

Giuliano ARNALDI, Onzo. 17 Maggio 2024

clicca qui per vedere le opere esposte https://flic.kr/s/aHBqjBqAcY 

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i dischi labiali Mursi: quando la sofferenza significa bellezza e potere.

disco labiale Dhebi, cultura Mursi, Etiopia. Terracotta cm 11 x 1,8. Prov. John Van Doren

L’antropologa Shauna LaTosky, parlando alle ragazze Mursi, disse che “non c’è gran differenza nel doversi mostrare alle feste danzanti col tacco 12, oppure portare un piattello labiale della stessa misura durante i duelli donga “ (cerimonie rituali durante le quali i maschi si misurano a colpi di bastone). E che dire della chirurgia plastica,  conseguenza di un fenomeno poco considerato ma dilagante, ovvero il body fascism, l’intolleranza verso coloro i cui corpi non si conformano a una particolare visione di ciò che è desiderabile? Pare che in ogni cultura scatti la trappola di modelli di bellezza impossibili da raggiungere senza farsi male.

Il caso delle donne Mursi è più complesso. I Mursi sono una popolo di circa dodicimila persone, appartenente al più vasto gruppo dei Surma, sono agricoltori e pastori e vivono nell’Etiopia meridionale tra i fiumi Amo e Mago. Intanto il loro mito d’origine sostiene che in principio non ci fossero uomini, ma solo donne;  capitò che una ragazza raccolse un corpo che galleggiava sul fiume, dentro un’arnia di corteccia, e lo nascose nella sua capanna. Era un ragazzo, e appena divenne uomo, la mise incinta. Con il crescere della pancia crebbe la curiosità delle altre donne, a cui la ragazza rispose«Ho cotto e mangiato la terra di un termitaio e inserito nella vagina una gususi (la mordace formica legionaria Aenictus hamifer,)». Pare che altre ragazze provarono la tecnica indicata, senza successo… ma è interessante notare il fatto che terra e dolore siano elementi imprescindibili nella antropopopoiesi (1) dei Mursi, ovvero quel processo che in antropologia definisce la formazione dell’uomo-sociale, con particolare riferimento  alla modificazione del corpo fisico:  Fin  dall’antichità l’essere umano ha considerato imperfetto il proprio corpo, e vissuto questa imperfezione come un limite rispetto alle proprie aspettative,  sopratutto in termini di relazione sociale; conseguentemente ha sentito l’esigenza di porre il corpo  dentro una visione del mondo che consentisse di elaborare risposte alle grandi domande dell’esistenza , creando quella che chiamiamo cultura. 

Veniamo quindi al Dhebi, il piattello labiale indossato dalle ragazze Mursi in attesa di sposarsi . E’ un disco in terracotta – in casi rari in legno – normalmente misura tra i 10 e 12 cm, è spesso poco più di un centimetro e pesa oltre 150 gr. Viene inserito nel labbro inferiore alla fine di un percorso che dura circa tre mesi ed inizia con  l’incisione del labbro, effettuata dalla madre o da un’altra donna della comunità. Viene inserito un pezzetto di legno fino a che la ferita – dolorosissima! – non si è cicatrizzata. A quel punto la ragazza provvederà ad allargare il foro sempre di più fino a raggiungere la dimensione desiderata, normalmente circa 12 cm

Ovviamente è necessario sfilalo per bere e mangiare, ed è particolarmente ingombrante. Ma è l’elemento più significativo nel percorso di seduzione. Il mento oscilla avanti e indietro in modo sensuale, generando un suono sottile che  i  Mursi chiamano zes zes. E’ un risultato che si ottiene al prezzo di grandi sofferenze; le dimensioni del disco obbligano a rimovere gli incisivi inferiori con una lama affilata, e non si deve piangere. E’ probabile che questo rito sia una feroce metafora della capacità di affrontare le difficoltà della vita, e che quindi  deformità e dolore siano fine,  e non mezzo. In genere le mutilazioni femminili sono fatte per assecondare gli uomini, ma sono fortemente volute e perpetrate dalle donne.  E’ ragionevole ritenere che, almeno in questo caso, siano un modo dolorosamente concreto per affermare una forza esistenziale che il maschio non può sottovalutare. La vita di questi oggetti è legata alla loro funzione: è indossato sempre quando si cerca marito, in cerimonie pubbliche particolarmente rilevanti nel caso di giovani spose, e gettato in caso di morte dello sposo. 

La suggestione contemporanea di questi oggetti è palese. Sembrano dipinti da un Artista Contemporaneo,  rigorosi nella loro armonia formale che rimanda certamente ad un “ codice” , ma è non  semplice leggerli, decodificare il significato di forme e colori dipinti sul disco; Secondo Alberto Salza (africarivista.it) certamente ne esistono almeno tre tipi in terracotta:  “ rosso (dhebi a golonya), marrone (a luluma), nero (a korra) e creta naturale (a holla, “bianco”). I piattelli rossi, coperti dalla corteccia profumata di un albero di foresta, si ottengono sui carboni ardenti. I piattelli “bianchi” sono in terracotta, ma non sfregati con l’erba, che tinge di nero; il bruno si ottiene dalla combustione di una pianta medicinale che aiuta la cicatrizzazione delle ferite. Oltre a quelli in terracotta, esistono i rari piattelli di legno (burgui), fatti esclusivamente dagli uomini mursi. “ 

  1. Personalmente mi affascina il fatto che termine ‘antropopòiesi’ sia costruito sulle due parole greche anthropos, ‘essere umano’, e poiesis, che significa ‘costruzione’, ma anche ‘composizione poetica’.
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Dove / Where quando/ when

FURORE! La furia di Virabhadra parte da Onzo…

https://flic.kr/s/aHBqjB3VU9 clicca qui per vedere la collezione

FURORE! è il titolo scelto per presentare una importante collezione di placche in bronzo Hindu databili tra il XVII E IL XIX secolo raffiguranti il mito di Virabhadra, e provenienti dalla Collezione di Paola e Giuseppe Berger. Nell’imponente Pantheon  induista la figura di VIrabhadra giganteggia; egli distrugge, perché “la pazienza, troppo spesso messa alla prova, diventa furore. (Publilio Siro)”,  perché ad un certo punto il nuovo ed il giusto si fanno  strada solo sovvertendo, demolendo, senza alcuna remora e senza alcuna pietà. E’ il furore per eccellenza, quello di Virabhadra, ovvero la reincarnazione guerriera di Shiva. Presentato in anteprima a Onzo, presso la Casa degli Artisti, sarà uno degli eventi destinato a girare l’Europa in occasione di TRIBALEGLOBALE 24, Pensiamo Immagini, l’insieme di manifestazioni organizzate dalla Associazione SituAzioni Tribaliglobali per celebrare i vent’anni di Tribaleglobale. 

In esposizione novanta placche in metalli diversi – rame, ottone, bronzo – provenienti dalla Collezione dei milanesi Giuseppe e Paola Berger.

Abbiamo da tempo il privilegio di esporre oggetti provenienti da questa importante collezione, prevalentemente riguardante le culture Indiane; nota per la qualità delle opere, la collezione è presente in importati spazi museali pubblici come il Museo Pigorini di Roma ( a cui la Famiglia Berger ha donato oltre mille oggetti “BETEL” ) e la Biblioteca Ambrosiana di Milano, a cui Paola e Giuseppe Berger donarono parte della collezione di placche VIRABHADRA . Grazie alla disponibilità degli eredi di Giuseppe Berger, possiamo oggi esporne la restante parte, quella più  più intima e privata. 

ICONOGRAFIA

Le placche, databili tra il XVII E IL XIX secolo, sono realizzate in metalli diversi, mediante fusione a cera persa o a sbalzo. Ganci ed  anelli indicano l’uso di appenderle nei tempietti di famiglia, la presenza di un manico sul retro che ne consente l’impugnatura rimanda invece ad un uso cerimoniale. Sostanzialmente si conoscono due stili: uno più accurato nel dettaglio, definito aulico, l’altro più essenziale, conosciuto come tribale. La struttura ad arco evoca l’alone di luce che accompagna l’apparizione di un essere divino; dall’alto verso il basso possiamo trovare   al centro un mascherone leonino, ai lati il sole e la luna, il linga yoni, che simboleggia l’unione tra il dio e la dea,  e il toro Nandi, simbolo della cavalcatura di Shiva oppure  Il cobra , singolo o policefalo ma sempre in numero dispari; il volto di Virabhadra è sempre rappresentato come irato e feroce,   il terzo occhio e/o i tre segni sulla fronte indicano la devozione a Shiva. Le braccia possono essere fino a dieci, ed impugnano armi e simboli diversi. In basso, ai lati, si trovano abitualmente Daksa, rappresentato con la testa del montone,  e Sati, manifestazione serena della moglie di Shiva,  o Kali , la sua declinazione terrifica.

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Togu na, la Casa parla/ Togu na, the house speaks

La Casa della Parola dei Dogon parla fin dal modo in cui è fatta ed è posizionata…
The Dogon House of the Word speaks from its forms, and position…

E’ raro che da questa parte del mondo gli spazi abitativi comuni ( villaggi, città quartieri, città..) siano stati progettati secondo una visione che vada oltre le necessità funzionali. C’è stata nel passato  una attenzione agli elementi naturali ( luce, presenza dell’acqua, venti.. ) e nel caso degli edifici di culto un orientamento rispetto al sorgere del sole, ma non pare ci sia stato  interesse verso elementi più trascendenti.

Non è certamente il caso delle culture che ci ostiniamo a definire ”primitive.” I popoli Pigmei della foresta dell’Ituri, ad esempio, smontano e rimontano le loro semplici capanne secondo un preciso schema valoriate prima che funzionale, i Dogon del Mali orientano i loro villaggi secondo criteri ben precisi, da nord a sud, dando loro una forma “urbanistica” che ricordi un uomo supino, potremmo dire sdraiato per guardare le Stelle. La testa di questo uomo immaginato ( o meglio evocato) è il Togu na. Togu significa riparo, na significa madre. Il Togu na è quindi il Grande Riparo, Madre Riparo. i Dogon lo indicano anche come “Casa della Parola” (la parola pronunciata nel togu na assume valori ed importanza che la differenziano da ogni altra) Sede specifica della parola “seduta”, calma e ponderata, è il centro nel quale si assumono le decisioni che governano il villaggio. La forma rimanda al  riparo dove si riunirono gli otto antenati primordiali, ciascuno dei quali è identificato con un pilastro, spesso scolpiti con immagini antropozoomorfe. L’impianto ideale del Togu na è rettangolare, orientato secondo i punti cardinali, ma vi  sono numerose  varianti sia nella forma che nei materiali. In generale si tratta di una bassa costruzione definita da tre file di pilastri lignei o in pietra, e da una travatura che sostiene  una copertura fatta di strati sovrapposti di materiale vegetale, normalmente steli di miglio,  con la funzione pratica di riparare efficacemente dal sole senza impedire la ventilazione. Che ogni elemento di quella cultura, compresi quelli materiali,  sia destinato a parlare, lo dicono le caratteristiche  comuni ad ogni Togu Na.  Le dimensioni sono sempre tali da permettere che la parola espressa in tono calmo e normale possa raggiungere chiunque sieda sotto al grande riparo e l’altezza dello spazio utile interno è sempre ridottissima, al fine di impedire  alla persona  di rimanere in piedi. Si può veramente dire che la Casa della Parola parla fin dal suo modo di essere! Anche la presenza  pressoché costante di un grande fico nelle immediate vicinanze del Togu na ha una funzione sia pratica che simbolica: serve insieme ad individuare facilmente il luogo anche da lontano, ed evoca un antico proverbio Dogon, “ l’ombra del fico è come il riparo della parola”.

It is rare that in this part of the world common living spaces (villages, cities, neighborhoods, cities…) have been designed according to a vision that goes beyond functional needs. In the past there has been attention to natural elements (light, presence of water, winds…) and in the case of buildings of worship an orientation towards the rising of the sun, but there does not seem to have been an interest in more transcendent elements.

This is certainly not the case with cultures that we persist in defining as “primitive.” The Pygmy people of the Ituri forest, for example, dismantle and reassemble their simple huts according to a precise scheme that values ​​rather than functions, the Dogon of Mali orient their villages according to very specific criteria, from north to south, giving them a shape “urban planning” that recalls a supine man, we could say lying down to look at the Stars. The head of this imagined (or rather evoked) man is the Togu na. Togu means shelter, na means mother. The Togu na is therefore the Great Shelter, Mother Shelter. the Dogon also indicate it as the “House of the Word” (the word pronounced in the togu na takes on values ​​and importance that differentiate it from any other) Specific seat of the word “sitting”, calm and thoughtful, is the center in which decisions are made who govern the village. The shape refers to the shelter where the eight primordial ancestors gathered, each of which is identified with a pillar, often carved with anthropozoomorphic images.

The ideal layout of the Togu na is rectangular, oriented according to the cardinal points, but there are numerous variations in both shape and materials. In general it is a low construction defined by three rows of wooden or stone pillars, and by a beam that supports a covering made of overlapping layers of plant material, normally millet stems, with the practical function of effectively protecting from the sun without prevent ventilation. The characteristics common to each Togu Na say that every element of that culture, including the material ones, is destined to speak. The dimensions are always such as to allow the word expressed in a calm and normal tone to reach anyone sitting under the large shelter and the height of the internal useful space is always very low, in order to prevent the person from remaining standing. It can truly be said that the House of the Word speaks from its way of being! Even the almost constant presence of a large fig tree in the immediate vicinity of the Togu na has both a practical and symbolic function: it serves both to easily identify the place even from afar, and evokes an ancient Dogon proverb, “the shadow of the fig tree is like the shelter of the word”.

Giuliano Arnaldi, Onzo 24 settembre 2024

le foto sono tratte da Togu Na, Spini – Electa 1976

palo di Togu na, Collezione Tribaleglobale pro. G.F.Scanzi cm 206

Palo di Togu na Collezione Tribaleglobale cm 169 prov. G.F.Scanzi

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LA CASA DEGLI ARTISTI di Cosio d’Arroscia 2/ CoBrA!

Casa degli artisti, Cosio d’Arroscia.
Rete MAP MUSEO NOMADE DI ARTI PRIMARIE

In qualche modo l’esperienza dell’internazionale Situazionista, nata nel 1957 a Cosio d’Arroscia, nacque da una breve, intensa e lungimirante avventura artistica conosciuta come C0.Br.A. Il gruppo deve il nome alle città di provenienza dei fondatori, Copenaghen, Brussels, Amsterdam. Asger Jorn, Pierre Alechinsky, Karel Appel e altri tra cui Corneille e Vardercam . Nonostante la breve durata ( dal 1948 al 1951, con solo due mostre all’attivo ) quel modo di fare arte, così “brutale”, immediato e istintivo cambiò il modo stesso di intendere la pittura e la stessa idea di opera artistica. La critica radicale del mercato arrivò fino a cambiare la percezione del rapporto tra opera, artista e collezionista, e pose le basi per giungere qualche anno dopo alla provocatoria pittura industriale venduta a metro del “Situazionista” Pinot Galizio. In realtà gli Artisti del Co.Br.A. furono sperimentatori di nuove tecniche, facendo della riproduzione seriale di un’opera d’arte una esperienza non solo legata alla necessità di rendere l’accesso all’arte più economico ( e quindi più “democratico) . Le opere vennero “pensate” per essere riprodotte con tecniche di stampa particolari, spesso rese di fatto uniche con interventi originali e specifici sulle diverse copie, e gli stampatori vennero coinvolti nella creazione artistica. E’ particolarmente significativa in questa ottica l’esperienza dei Fratelli Pozzo di Torino e delle loro Edizioni d’Arte, dirette non a caso da Ezio Gribaudo, Artista poi divenuto Presidente Emerito della Accademia Albertina di Torino. La Prova d’Artista di Asger Jorn del 1970, che esponiamo in questa occasione, proviene da questa esperienza. Anche le altre opere in esposizione. La Prova d’Artista di Karel Appel , iconica nel linguaggio estetico di quel movimento, è stampata su pergamena, mentre la Prova d’Artista di Pierre Alechinsky è realizzata con tecniche diverse, dall’incisione alla fotografia. Certamente ci furono anche Artisti che della serialità dell’opera d’arte fecero un uso più “estetico” e conseguentemente commerciale, come testimonia la litografia di Corneille, ancorché realizzata in una bassa tiratura.

L’opera di Serve Vandercam è invece un dipinto su carta riportato su tela

“ Asger Jorn: dipingere con la tipografia” La testimonianza di Ezio Gribaudo “ Ho conosciuto Asger Jorn nei primi anni sessanta, durante la preparazione di un volume che ho stampato alla Fratelli Pozzo per Noel Arnaud, La langue verte et la cuite, edito da Jean-Jacques Pauvert. Il libro fu costruito sui tavoli del montaggio, dove si decorarono le lingue, si scelsero e ritagliarono le immagini; non fu preparata una vera e propria maquette, ma si procedette n una mise en page a più mani. Jorn lavorò una settimana. Fino a sera inoltrata dormendo su un lettino di fortuna in infermeria; capiva di avere a disposizione un parco macchine speciale e mi fu sempre grato di avergli dato l’opportunità di dipingere con la tipografia Jorn amava molto la tipografia, l’odore degli inchiostri e dei piombi, dei cliche e dei fani; gli piaceva lavorare direttamente sulle lastre e si cimentava a realizzare opere sperimentali di grafica di grande formato su cui interveniva personalmente di inchiostri e caratteri tipografici. Proprio per la Fratelli Pozzo realizzò la litografia più grande della sua carriera (200 x 140 cm). Jorn amava la parte più creativa e, come se si fosse trovato nel proprio atelier, riuscivamo a dar vita a un lavoro collettivo con i cromisti e le altre maestranze. Ho realizzato con lui due volumi, il primo nel 1970, Jorn a Cuba, testimonianza del suo lavoro svolto a L’Avana su invito del governo cubano nel 1968 che risponde, da un lato, all’idea dell’impegno sociale dell’autore e, dall’altro, ai legami internazionali anche con altri artisti, per esempio Wifredo Lam. Il secondo, Le jardin d’Albisola, è uscito postumo nel 1974 e documenta le ceramiche che l‘artista danese realizzava appunto in questo luogo della Liguria, ora diventato Museo.” Testimonianza di Ezio Gribaudo. Si ringrazia la dott.ssa CATERINA FOSSATI 

Somehow the experience of the Situationist international, born in 1957 in Cosio d’Arroscia, was born from a short, intense and farsighted artistic adventure known as C0.Br.A. The group owes its name to the cities of origin of the founders, Copenhagen, Brussels, Amsterdam. Asger Jorn, Pierre Alechinsky, Karel Appel and others including Corneille and Serge Vardercam. Despite the short duration (from 1948 to 1951, with only two active exhibitions) that way of making art, so “brutal”, immediate and instinctive changed the very way of understanding painting and the same idea of ​​artistic work. The radical critique of the market went so far as to change the perception of the relationship between work, artist and collector, and laid the foundations for arriving a few years later at the provocative industrial painting sold by the meter of the “Situationist” Pinot Galizio. Actually the Artists of the Co.Br.A. they were experimenters of new techniques, making the serial reproduction of a work of art an experience not only linked to the need to make access to art cheaper (and therefore more “democratic”). The works were “designed” to be reproduced with particular printing techniques, often made in fact unique with original and specific interventions on the various copies, and the printers were involved in the artistic creation. In this perspective, the experience of the Pozzo Brothers of Turin and their Art Editions is particularly significant, directed not by chance by Ezio Gribaudo, an artist who later became President Emeritus of the Accademia Albertina in Turin. Asger Jorn’s Proof of Artist from 1970, which we are exhibiting on this occasion, comes from this experience. Also the other works on display. Karel Appel’s Artist’s Proof, iconic in the aesthetic language of that movement, is printed on parchment, while Pierre Alechinsky’s Artist’s Proof is made with different techniques, from etching to photography. Certainly there were also artists who made a more “aesthetic” and consequently commercial use of the seriality of the work of art, as evidenced by Corneille’s lithograph, albeit made in a small edition.

“ Asger Jorn: painting with typography”

The testimony of Ezio Gribaudo

“ I met Asger Jorn in the early sixties, during the preparation of a volume that I printed at Fratelli Pozzo for Noel Arnaud, La langue verte et la cuite, edited by Jean-Jacques Pauvert. The book was built on the editing tables, where the languages ​​were decorated, the images were chosen and cut out; a real maquette was not prepared, but a multi-handed mise en page proceeded. Jorn worked for a week. Until late in the evening sleeping on a makeshift cot in the infirmary; he understood that he had a special fleet of machines at his disposal and he was always grateful to me for having given him the opportunity to paint with typography. Jorn was very fond of typography, the smell of inks and leads, clichés and fans; he liked to work directly on the plates and tried his hand at creating experimental works of large format graphics on which he personally intervened with inks and typographic characters. Precisely for Fratelli Pozzo he created the largest lithograph of his career (200 x 140 cm). Jorn loved the most creative part and, as if he were in his own atelier, we were able to create a collective work with the chromatists and other workers. I wrote two volumes with him, the first in 1970, Jorn in Cuba, evidence of his work carried out in Havana at the invitation of the Cuban government in 1968 which responds, on the one hand, to the idea of ​​the author’s social commitment and , on the other hand, to international ties also with other artists, for example Wifredo Lam. The second, Le jardin d’Albisola, was published posthumously in 1974 and documents the ceramics that the Danish artist made precisely in this place in Liguria, which has now become a museum.”

Testimony of Ezio Gribaudo.

Thanks to Dr. CATERINA FOSSATI

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Bwoom, a royal Kuba Mask. Una Maschera reale Kuba

Maschera Bwoom, Cultura Kuba, R.d.Congo, metà del XX secolo legno, caori, perline, pelle, cm 34 prov. Christie’s 6/03/1990 Arte Primitivo Barcellona

Questa maschera ad elmo, chiamata Bwoom, danza durante le cerimonie di iniziazione maschile (nkaan); esse hanno la funzione di insegnare agli iniziati la storia, i valori culturali di Kuba e di onorare la memoria di Woot (il padre fondatore e antenato di tutti i re Kuba). Le opinioni su ciò che rappresenta Bwoom sono diverse : alcune fonti indicano che la maschera rappresenta un principe (fratello minore del re), afflitto da un problema neurologico che provocava il gonfiore della testa, altre che sia l’immagine di uno degli abitanti originari della regione, i Pigmei Twa, altre ancora che bwoom sia stato creato per il re regnante dell’epoca, Miko mi-Mbul, creata in alternativa alla maschera reale mwaash ambooy, per essere indossata dal re per curare la sua malattia mentale (da qui la sua descrizione locale “una persona di basso rango poco degna di essere incarnata dal re”). Bwoom è universalmente ritenuto uno spirito della natura (ngesh; pl. mingesh) che appare agli iniziati nkaan ed aiuta a potenziare l’influenza positiva degli spiriti della natura sulla vita dei Kuba.

This helmeted mask, called Bwoom, dances during male initiation ceremonies (nkaan); they have the function of teaching initiates the history and cultural values ​​of the Kuba people and honoring the memory of Woot (the founding father and ancestor of all Kuba kings). There are different opinions on what Bwoom represents: some sources indicate that the mask represents a prince (younger brother of the king), afflicted by a neurological problem that caused the head to swell, others that it is the image of one of the original inhabitants of the region, the Twa Pygmies, others that Bwoom was created for the reigning king of the time, Miko mi-Mbul, created as an alternative to the royal mask Mwaash ambooy, to be worn by the king to cure his mental illness (hence the his local description “a person of low rank hardly worthy to be embodied by the king”). Bwoom is universally believed to be a nature spirit (ngesh; pl. mingesh) who appears to Nkaan initiates and helps to enhance the positive influence of nature spirits on the lives of the Kuba.

Giuliano Arnaldi, Onzo giugno 2023

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focus/cucchiaio dan/dan spoon

Un’icona: wakemia

E’ un’oggetto diventato iconico. le forme ardite ma perfette nella loro armonia misteriosa sprigionano una potenza archetipale. Appare istintivamente normale pensare ad una figura femminile, all’essenza della della figura femminile. Le gambe, il sesso pronunciato, l’insieme della parte centrale sono esplicite, ma avere concentrato nella parte alta, dove nella realtà si trova la testa, una grande forma concava non è solo funzionale all’uso per cui questo oggetto è pensato, ma racconta con una immagine la qualità sapienziale femminile: raccogliere la vita, custodirla, nutrirla. In questo semplice oggetto d’uso c’è l’essenza dell’alfabeto metaforico usato dalle culture Primarie, cosi semplice nell’evocare narrazioni sugli aspetti più significativi dell’esperienza umana.

E’ tra gli oggetti più ricercati ( e costosi ) nel mercato delle Arti Primarie. I più blasonati fanno nelle aste cifre a cinque zeri. Ed inesorabilmente è tra i più falsificati, fatto che porta chi acquista i pedigree invece della qualità a non prendere in considerazione quasi mai gli Wakemia senza provenienza certa, anche perché non è semplice distinguere un’opera originale da una copia ben fatta.

In questo caso l’oggetto dichiara la sua autenticità sia grazie al suo rigore formale, sia alla patina d’uso; è evidente che l’usura delle scarificazioni riprodotte nella parte centrale non può essere stata fabbricata ad arte.

E’ doverosa qualche informazione specifica : questo cucchiaio wakemia ( 0 wunkirmian ) è espressione della cultura del popolo Dan ( Costa d’Avorio ), è realizzato in legno duro con una patina molto scura, e misura 49,8 centimetri di altezza. E’ stato raccolto in situ oltre vent’anni fa ma ragionevolmente risale alla metà del secolo scorso; venne messo al riparo dai saccheggi e dal vandalismo legati alla lunga serie di guerre che hanno dilaniato quelle terre ed è stato gelosamente custodito per lunghi anni ad Abidjan da un noto antiquario locale e poi dai suoi nipoti.

” I grandi cucchiai cerimoniali sono scolpiti per onorare una specifica donna Dan di che si è distinta nella comunità di origine per generosità e ospitalità. Nelle ricorrenze importanti danza con il cucchiaio e dirige la distribuzione del riso ai convenuti. Divenuta anziana e riconosciuta come autorevole, passa il cucchiaio e il prestigio che ne deriva a colei che ritiene essere la più adeguata a succederle. I cucchiai sono conosciuti con molti nomi, tra cui wakemia o wunkirmian, che si traduce approssimativamente come “cucchiaio associato alle feste”. I cucchiai hanno dimensioni variabili da un piede a due piedi e hanno una o (raramente) due palette concave parallele. Il manico del cucchiaio è sempre decorato e spesso è legato alla forma umana e spesso presenta un paio di gambe come questo esemplare.
Tra i Dan, la proprietaria del cucchiaio è chiamata wa ke de, “donne che recitano alle feste”. È un titolo di grande distinzione, e viene viene dato alla donna più ospitale del paese. Con l’onore, tuttavia, viene la responsabilità di preparare la grande festa che accompagna le cerimonie mascherate. Dovendo accogliere e celebrare adeguatamente gli spiriti mascherati, le wa ke devono avere eccellenti capacità agricole, talento organizzativo e abilità culinarie i.
Quando una donna è stata scelta come padrona di casa principale per un simile evento, sfila per la città portando il cucchiaio grande come emblema del suo status. Il giorno della festa balla per il villaggio vestita da uomo perché “solo gli uomini sono presi sul serio”. Porta con sé un wunkirmian e mostra una ciotola piena di piccole monete o riso. Con l’aiuto dei suoi numerosi assistenti (di solito parenti o amiche), distribuisce cereali e monete ai bambini della comunità mentre balla e canta una speciale canzone con voce stridula. Il ventre profondo del cucchiaio da cui viene dispensata questa generosità diventa il corpo simbolico o grembo della figura femminile. L’evento crea una profonda analogia visiva che onora la padrona di casa, e le donne in generale, come fonte di cibo e di vita.
Oltre ad essere emblemi d’onore, i wunkirmian hanno anche un potere spirituale. Sono il principale collegamento di una donna Dan con il potere del mondo degli spiriti e un simbolo di quella connessione. Tra i Dan, ai wunkirmian è stato assegnato un ruolo tra le donne paragonabile a quello che le maschere svolgono tra gli uomini. In molti casi, i wunkirmian sono presenti nelle stesse cerimonie con maschere, lanciando riso davanti a loro come benedizione mentre procedono attraverso il villaggio. (Fonte: Metropolitan Museum of Art)

It is an object that has become iconic. the bold but perfect shapes in their mysterious harmony release an archetypal power. It seems instinctively normal to think of a female figure, of the essence of the female figure. The legs, the pronounced sex, the whole of the central part are explicit, but having concentrated in the upper part, where the head is actually located, a large concave shape is not only functional to the use for which this object was designed, but it tells with an image the female sapiential quality: gathering life, guarding it, nourishing it. In this simple object of use there is the essence of the metaphorical alphabet used by Primary cultures, so simple in evoking narratives on the most significant aspects of human experience.

It is among the most sought after (and expensive) objects in the Primary Arts market. The most famous ones make five-figure figures in auctions. And inexorably it is among the most falsified, a fact that leads those who buy pedigrees instead of quality to almost never take into consideration Wakemias without certain provenance, also because it is not easy to distinguish an original work from a well-made copy.

In this case the object declares its authenticity both thanks to its formal rigor and the patina of use; it is evident that the wear of the scarifications reproduced in the central part could not have been artfully manufactured.

Some specific information is required: this wakemia spoon ( 0 wunkirmian ) is an expression of the culture of the Dan people ( Ivory Coast ), is made of hard wood with a very dark patina, and measures 49.8 cm in height. It was collected in situ over twenty years ago but reasonably dates back to the middle of the last century; it was sheltered from looting and vandalism linked to the long series of wars that tore those lands apart and was jealously guarded for many years in Abidjan by a well-known local antique dealer and then by his nephews.



"Large ceremonial ladles are carved to honor a particular Dan woman from each village quarter who has distinguished herself among her fellow women by generosity and hospitality. At special feasts, she dances with the ladle and directs the distribution of rice to those assembled. An elderly honouree passes the ladle and the honour on to the one she sees fit as a successor.
Artists in Dan communities of the Guinea coast have mastered the art of carving impressive, large wooden spoons that are virtuos works of sculpture. The spoons are known by many names, including wake mia or wunkirmian, which roughly translates as “spoon associated with feasts.” The spoons range in size from a foot to two feet and have one or (rarely) two parallel bowls. The handle of the spoon is always decorated and often is related to the human form and often feature a pair of legs like this example.
Among the Dan, the owner of the spoon is called wa ke de, “at feasts acting woman.” It is a title of great distinction that is given to the most hospitable woman of the village. With the honor, however, comes responsibility—the wa ke de must prepare the large feast that accompanies masquerade ceremonies. The excellent farming abilities, organizational talents, and culinary skills of the wa ke de are called upon to properly welcome and celebrate the masquerade spirits.
When a woman has been selected as the main hostess of such a feast, she parades through town carrying the large spoon as an emblem of her status. On the day of the feast, she dances around the village dressed in men’s clothes because “only men are taken seriously.” She carries with her a wunkirmian and displays a bowl filled with small coins or rice. With help from her numerous assistants (usually female relatives or friends), she distributes grains and coins to the children of the community while dancing and singing her special shrill song. The deep belly of the spoon from which this bounty is dispensed becomes the symbolic body or womb of the female figure. The event creates a profound visual analogy that honors the hostess, and women in general, as a source of food and life.
In addition to being emblems of honor, wunkirmian also have spiritual power. They are a Dan woman’s chief liaison with the power of the spirit world and a symbol of that connection. Among the Dan, the wunkirmian have been assigned a role among women that is comparable to that which masks serve among the men. In many instances, wunkirmian are featured in the same ceremonies with masks, tossing rice in front of them as a blessing while they proceed through the village.(Source: Metropolitan Museum of Art)

Giuliano Arnaldi, Onzo 26 giugno 2023