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Sapere vedere, oltre la società dello spettacolo /Knowing how to see, Beyond the society of the spectacle.

Cosio d’Arroscia, casa degli artisti, sala verde. Fino al 30 settembre 2024

1. Sapere vedere. C’è un aspetto centrale ed indispensabile nell’esperienza percettiva? Se esiste è legato allo sguardo. Non mi riferisco al semplice guardare, ma a tutto ciò che implica sapere vedere. Ci si guarda dentro prima di guardare fuori, cosi come ciò che vediamo nutre il nostro essere più intimo. E spesso la realtà non è ciò che appare . 

Un corpo, un volto definiscono un carattere, lo animano rimandando ad un grumo di sensazione che nascono dalla inesorabile ed istintiva associazione di idee, conferendo   consistenza ontologica alla forma. Senza ricorrere alle esasperazioni di Lombroso si può dire che la, fisiognomica abbia un suo perché. Sono gli occhi a guardare? No, gli occhi sono strumento, e come diceva Saint-Exupéry, l’essenziale è invisibile agli occhi. 

Ma gli occhi parlano, sono lo specchio dell’anima e ci dicono chi siamo. E altrove? Nel mondo degli “altri” come si evoca la potenza dello sguardo? Uso l’espressione potenza perché lo sguardo profondo – quello alla Saint-Exupéry per intenderci – non prevede necessariamente una osservazione diretta della realtà per come si manifesta, ma per come essa agisce in noi evocando uno stato di coscienza. 

In realtà la funzione profonda non cambia: anche il realismo dell’arte occidentale funziona solo se evoca stati di coscienza, esattamente come l’alfabeto sintetico usato dai linguaggi degli artisti extraeuropei.
Ecco che le fessure di una maschera Dan o Punu, lo sguardo dipinto di un antico sapiente evocato in un dipinto del XVII secolo parlano di sentimenti che ci appartengono, che riconosciamo grazie ad un misterioso linguaggio di forma, colore e materia che dà vita ed emozione; è il risultato del lavoro dei nostri neuroni/specchio, e ci rende in un lampo consapevoli di un Mistero più grande di noi, anche se fatto su misura per noi, per essere compreso da noi, per essere usato da noi, per aiutarci a capire e governare ciò che di sorprendentemente misterioso ci accade. 

2. Oltre la società dello spettacolo. Un antico dipinto, due maschere africane, la tv Zéo  disegnata da Philippe Stark per Thomson negli anni 90 del secolo scorso, completa di telecomando. Sono questi gli elemento alfabetici usati da Giuliano Arnaldi ed Emilio Grollero per avviare un dialogo sulla differenza tra vedere e guardare, più in generale tra agire e subire nella società dello spettacolo. La vecchia tv è come si dice oggi un “pezzo di design”. Non essendoci segnale gracchia ed emette uno sfarfallio costante, efficace testimone della subalternità passiva e totale dello spettatore. Il telecomando già rimanda ad  altro; è disegnato per farci pensare d’istinto  ad una faccia, curiosamente ospitata in  una forma fallica. La potenza evocativa emerge però in modo consapevole nelle altre opere esposte, pur nella diversità degli alfabeti usati. Le antiche maschere   Punu e Dan parlano la lingua archetipale delle culture africane, che affidano all’essenzialità  il compito di evocare stati di coscienza come l’altro elemento, un talismano etiope posto al centro della stanza; rimanda ad antiche parole destinate a curare il corpo e l’anima. L’antico dipinto attribuito ad Assereto dichiara invece il proprio messaggio in modo esplicito, descrittivo, secondo la tradizione occidentale. In entrambi contesti   bisogna sapere – e volere – vedere, rifiutare il ruolo inumano di spettatori per rivendicare e praticare quello di attori. E’ il potere antico della parola – dal  latino tardo parabŏla , intesa come insegnamento, discorso -, che implica la responsabilità della scelta,  a fare la differenza tra società umana e società dello spettacolo. Prende corpo il monito scritto da Guy Debord nel 1967, e riscritto oggi sullo schermo della TV esposta da Emilio Grollero; la televisione  era agli albori e i social nemmeno immaginati: “l’intera vita della società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso cumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto, si è allontanato un una rappresentazione”.

L’installazione di Emilio Grollero

1. Knowing how to see. Is there a central and indispensable aspect in the perceptual experience? If it exists it is linked to the gaze. I’m not referring to simply looking, but to everything that involves knowing how to see. We look inside before looking outside, just as what we see nourishes our most intimate being. And often reality is not what it appears. 

A body, a face define a character, animate it by referring to a lump of sensation that arises from the inexorable and instinctive association of ideas, giving ontological consistency to the form. Without resorting to Lombroso’s exasperations, it can be said that physiognomy has its own reason. Are the eyes watching? No, the eyes are instruments, and as Saint-Exupéry said, the essential is invisible to the eyes. 

But the eyes speak, they are the mirror of the soul and tell us who we are. And elsewhere? In the world of “others” how is the power of the gaze evoked? I use the expression power because the profound gaze – that of Saint-Exupéry so to speak – does not necessarily involve a direct observation of reality as it manifests itself, but as it acts in us, evoking a state of consciousness. 

In reality, the profound function does not change: even the realism of Western art only works if it evokes states of consciousness, exactly like the synthetic alphabet used by the languages ​​of non-European artists.
Here the cracks of a Dan or Punu mask, the painted gaze of an ancient wise man evoked in a 17th century painting speak of feelings that belong to us, which we recognize thanks to a mysterious language of shape, color and matter that gives life and emotion ; it is the result of the work of our neurons/mirrors, and makes us instantly aware of a Mystery bigger than us, even if tailor-made for us, to be understood by us, to be used by us, to help us understand and govern the surprisingly mysterious things that happen to us.

2. Beyond the society of the spectacle. An ancient painting, two African masks, the Zéo TV designed by Philippe Stark for Thomson in the 90s of the last century, complete with remote control. These are the alphabetical elements used by Giuliano Arnaldi and Emilio Grollero to start a dialogue on the difference between seeing and looking, more generally between acting and suffering in the society of the spectacle. The old TV is, as they say today, a “piece of design”. Since there is no signal, it croaks and emits a constant flicker, an effective witness to the passive and total subordination of the spectator. The remote control already refers to something else; it is designed to make us instinctively think of a face, curiously housed in a phallic shape. However, the evocative power emerges consciously in the other works on display, despite the diversity of the alphabets used. The ancient Punu and Dan masks speak the archetypal language of African cultures, which entrust essentiality with the task of evoking states of consciousness like the other element, an Ethiopian talisman placed in the center of the room; refers to ancient words intended to heal the body and soul. The ancient painting attributed to Assereto instead declares its message in an explicit, descriptive way, according to Western tradition. In both contexts one must know – and want – to see, reject the inhuman role of spectators to claim and practice that of actors. It is the ancient power of the word – from the late Latin parabŏla, understood as teaching, discourse -, which implies the responsibility of choice, that makes the difference between human society and the society of the spectacle. The warning written by Guy Debord in 1967, and rewritten today on the TV screen exposed by Emilio Grollero, takes shape; television was in its infancy and social media was not even imagined: “the entire life of society, in which modern production conditions dominate, announces itself as an immense accumulation of shows. Everything that was directly experienced has receded into a representation.”

Giuliano Arnaldi, Cosio d’Arroscia 5 agosto 2024

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NOMADISMO

“ L’uomo fu inizialmente nomade; oggi, assimilata la stanzialità ed a causa della mondializzazione, sta diventando “nomade” in un modo nuovo. I nomadi hanno inventato gli elementi basilari della civiltà; gli stanziali l’hanno organizzata. Chi si sposta non è detto che sia “barbaro” ma può essere una forza d’innovazione e di creazione; le società quando si chiudono agli itineranti, agli stranieri, a qualsiasi movimento, declinano. Con le nuove tecnologie del viaggio, reale o virtuale, si aprono nuovi scenari per l’umanità. Giunge a compimento l’egemonia dell’ultimo impero stanziale (gli USA), e incomincia la gara a rimpiazzarlo da parte delle tre forze nomadi di oggi: mercato, democrazia, fede”. Questo è l’incipit di un bel libro di Jaques ATTALI , L’UOMO NOMADE – SPIRALI 2006 – Pur essendo datato, nel senso che negli ultimi dieci anni i fenomeni migratori hanno assunto proporzioni e caratteristiche decisamente epocali, il testo di Attali definisce il perimetro dell’argomento. 

A noi interessa riflettere sulla dimensione estetica di quello che è il nomadismo per eccellenza, almeno nel nostro immaginario, ovvero quello che popola i deserti nord africani. Gli oggetti in uso presso quelle culture testimoniano la “ consueta” , sorprendente bellezza a cui ci hanno abituato le Arti Primarie. Nel caso dei picchetti Tuareg sono forma e segno a parlarci; quelli a forma piatta ed articolata si chiamano Ehel, sono posti all’interno delle tende per sostenere i pannelli Eseber – realizzati in fibra vegetale- e destinati a creare spazi intimi. I picchetti scolpiti a tutto tondo si chiamano  Igem,  sono posti all’esterno della tenda,  ne indicano l’ingresso e ne identificano gli abitanti .  Per i rari Burqua “Arouse” dei Rashaida è la  fantasmagoria di materiali ed oggetti usati per creare questo particolare manufatto ad evocare  antiche narrazioni.  Questi particolari veli nuziali fanno riflettere sui pregiudizi che abbiamo verso le  culture  diverse dalla nostra; essendo Burqua, istintivamente ci rimandano all’idea di oppressione e svilimento della donna; non è così, ed è sufficiente vederli per rendersene conto, apprezzandone la varietà di colori, materiali preziosi, intrecci. Non è coprire il volto o il corpo ad essere opprimente, ma essere obbligate a farlo, e c’è molto meno rispetto verso la donna nella ostentazione mercificata del nudo che si fa in occidente. 

Mentre i Touareg sono ampiamente conosciuti e per certi versi mitizzati, i Rashaida furono  l’ultima minoranza a migrare in Eritrea nel XIX secolo dalla Penisola Arabica.  I loro accampamenti sono prevalentemente presso Massawa, ed oggi possono  essere considerati i testimoni dell’unica cultura eritrea interamente nomade e di lingua araba, fortemente tradizionalista. Di carattere schivo e guerriero, storicamente  pirati e predoni , sono coloro che anticamente si occupavano  della tratta degli schiavi e che ancora oggi gestiscono operativamente il transito nel deserto dei migranti, gli schiavi del XXI secolo. 

“ Man was initially nomadic; today, having assimilated sedentary living and due to globalization, he is becoming “nomadic” in a new way. Nomads invented the basic elements of civilization; the residents organized it. Those who move are not necessarily “barbarian” but can be a force of innovation and creation; When societies close themselves to itinerants, to foreigners, to any movement, they decline. With new travel technologies, real or virtual, new scenarios are opening up for humanity. The hegemony of the last sedentary empire (the USA) comes to fruition, and the race to replace it by today’s three nomadic forces begins: market, democracy, faith”. This is the incipit of a beautiful book by Jaques ATTALI, L’UOMO NOMADE – SPIRALS 2006 – Despite being dated, in the sense that in the last ten years migratory phenomena have taken on decidedly epochal proportions and characteristics, Attali’s text defines the perimeter of the topic.

We are interested in reflecting on the aesthetic dimension of what is the nomadism par excellence, at least in our imagination, that is, that which populates the North African deserts. The objects in use in those cultures bear witness to the “usual”, surprising beauty to which the Primary Arts have accustomed us. In the case of the Tuareg pickets, it is the shape and sign that speak to us; those with a flat and articulated shape are called Ehel, they are placed inside the tents to support the Eseber panels – made of vegetable fiber – and intended to create intimate spaces. The all-round sculpted pegs are called Igem, they are placed outside the tent, they indicate the entrance and identify its inhabitants. For the rare Rashaida Burqua “Arouse” it is the phantasmagoria of materials and objects used to create this particular artefact that evokes ancient narratives. These particular wedding veils make us reflect on the prejudices we have towards cultures different from ours; being Burqua, they instinctively refer us to the idea of oppression and debasement of women; this is not the case, and it is enough to see them to realize this, appreciating the variety of colours, precious materials and weaves. It is not covering the face or the body that is oppressive, but being forced to do so, and there is much less respect towards women in the commodified ostentation of nudity that is done in the West.

While the Touareg are widely known and in some ways mythologized, the Rashaida were the last minority to migrate to Eritrea in the 19th century from the Arabian Peninsula. Their camps are mainly near Massawa, and today they can be considered the witnesses of the only entirely nomadic and Arabic-speaking, strongly traditionalist Eritrean culture. Of a shy and warrior nature, historically pirates and raiders, they are those who in ancient times dealt with the slave trade and who still today operationally manage the transit of migrants in the desert, the slaves of the 21st century. 

Giuliano ARNALDI, Onzo. 17 Maggio 2024

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i dischi labiali Mursi: quando la sofferenza significa bellezza e potere.

disco labiale Dhebi, cultura Mursi, Etiopia. Terracotta cm 11 x 1,8. Prov. John Van Doren

L’antropologa Shauna LaTosky, parlando alle ragazze Mursi, disse che “non c’è gran differenza nel doversi mostrare alle feste danzanti col tacco 12, oppure portare un piattello labiale della stessa misura durante i duelli donga “ (cerimonie rituali durante le quali i maschi si misurano a colpi di bastone). E che dire della chirurgia plastica,  conseguenza di un fenomeno poco considerato ma dilagante, ovvero il body fascism, l’intolleranza verso coloro i cui corpi non si conformano a una particolare visione di ciò che è desiderabile? Pare che in ogni cultura scatti la trappola di modelli di bellezza impossibili da raggiungere senza farsi male.

Il caso delle donne Mursi è più complesso. I Mursi sono una popolo di circa dodicimila persone, appartenente al più vasto gruppo dei Surma, sono agricoltori e pastori e vivono nell’Etiopia meridionale tra i fiumi Amo e Mago. Intanto il loro mito d’origine sostiene che in principio non ci fossero uomini, ma solo donne;  capitò che una ragazza raccolse un corpo che galleggiava sul fiume, dentro un’arnia di corteccia, e lo nascose nella sua capanna. Era un ragazzo, e appena divenne uomo, la mise incinta. Con il crescere della pancia crebbe la curiosità delle altre donne, a cui la ragazza rispose«Ho cotto e mangiato la terra di un termitaio e inserito nella vagina una gususi (la mordace formica legionaria Aenictus hamifer,)». Pare che altre ragazze provarono la tecnica indicata, senza successo… ma è interessante notare il fatto che terra e dolore siano elementi imprescindibili nella antropopopoiesi (1) dei Mursi, ovvero quel processo che in antropologia definisce la formazione dell’uomo-sociale, con particolare riferimento  alla modificazione del corpo fisico:  Fin  dall’antichità l’essere umano ha considerato imperfetto il proprio corpo, e vissuto questa imperfezione come un limite rispetto alle proprie aspettative,  sopratutto in termini di relazione sociale; conseguentemente ha sentito l’esigenza di porre il corpo  dentro una visione del mondo che consentisse di elaborare risposte alle grandi domande dell’esistenza , creando quella che chiamiamo cultura. 

Veniamo quindi al Dhebi, il piattello labiale indossato dalle ragazze Mursi in attesa di sposarsi . E’ un disco in terracotta – in casi rari in legno – normalmente misura tra i 10 e 12 cm, è spesso poco più di un centimetro e pesa oltre 150 gr. Viene inserito nel labbro inferiore alla fine di un percorso che dura circa tre mesi ed inizia con  l’incisione del labbro, effettuata dalla madre o da un’altra donna della comunità. Viene inserito un pezzetto di legno fino a che la ferita – dolorosissima! – non si è cicatrizzata. A quel punto la ragazza provvederà ad allargare il foro sempre di più fino a raggiungere la dimensione desiderata, normalmente circa 12 cm

Ovviamente è necessario sfilalo per bere e mangiare, ed è particolarmente ingombrante. Ma è l’elemento più significativo nel percorso di seduzione. Il mento oscilla avanti e indietro in modo sensuale, generando un suono sottile che  i  Mursi chiamano zes zes. E’ un risultato che si ottiene al prezzo di grandi sofferenze; le dimensioni del disco obbligano a rimovere gli incisivi inferiori con una lama affilata, e non si deve piangere. E’ probabile che questo rito sia una feroce metafora della capacità di affrontare le difficoltà della vita, e che quindi  deformità e dolore siano fine,  e non mezzo. In genere le mutilazioni femminili sono fatte per assecondare gli uomini, ma sono fortemente volute e perpetrate dalle donne.  E’ ragionevole ritenere che, almeno in questo caso, siano un modo dolorosamente concreto per affermare una forza esistenziale che il maschio non può sottovalutare. La vita di questi oggetti è legata alla loro funzione: è indossato sempre quando si cerca marito, in cerimonie pubbliche particolarmente rilevanti nel caso di giovani spose, e gettato in caso di morte dello sposo. 

La suggestione contemporanea di questi oggetti è palese. Sembrano dipinti da un Artista Contemporaneo,  rigorosi nella loro armonia formale che rimanda certamente ad un “ codice” , ma è non  semplice leggerli, decodificare il significato di forme e colori dipinti sul disco; Secondo Alberto Salza (africarivista.it) certamente ne esistono almeno tre tipi in terracotta:  “ rosso (dhebi a golonya), marrone (a luluma), nero (a korra) e creta naturale (a holla, “bianco”). I piattelli rossi, coperti dalla corteccia profumata di un albero di foresta, si ottengono sui carboni ardenti. I piattelli “bianchi” sono in terracotta, ma non sfregati con l’erba, che tinge di nero; il bruno si ottiene dalla combustione di una pianta medicinale che aiuta la cicatrizzazione delle ferite. Oltre a quelli in terracotta, esistono i rari piattelli di legno (burgui), fatti esclusivamente dagli uomini mursi. “ 

  1. Personalmente mi affascina il fatto che termine ‘antropopòiesi’ sia costruito sulle due parole greche anthropos, ‘essere umano’, e poiesis, che significa ‘costruzione’, ma anche ‘composizione poetica’.
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Dove / Where quando/ when

FURORE! La furia di Virabhadra parte da Onzo…

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FURORE! è il titolo scelto per presentare una importante collezione di placche in bronzo Hindu databili tra il XVII E IL XIX secolo raffiguranti il mito di Virabhadra, e provenienti dalla Collezione di Paola e Giuseppe Berger. Nell’imponente Pantheon  induista la figura di VIrabhadra giganteggia; egli distrugge, perché “la pazienza, troppo spesso messa alla prova, diventa furore. (Publilio Siro)”,  perché ad un certo punto il nuovo ed il giusto si fanno  strada solo sovvertendo, demolendo, senza alcuna remora e senza alcuna pietà. E’ il furore per eccellenza, quello di Virabhadra, ovvero la reincarnazione guerriera di Shiva. Presentato in anteprima a Onzo, presso la Casa degli Artisti, sarà uno degli eventi destinato a girare l’Europa in occasione di TRIBALEGLOBALE 24, Pensiamo Immagini, l’insieme di manifestazioni organizzate dalla Associazione SituAzioni Tribaliglobali per celebrare i vent’anni di Tribaleglobale. 

In esposizione novanta placche in metalli diversi – rame, ottone, bronzo – provenienti dalla Collezione dei milanesi Giuseppe e Paola Berger.

Abbiamo da tempo il privilegio di esporre oggetti provenienti da questa importante collezione, prevalentemente riguardante le culture Indiane; nota per la qualità delle opere, la collezione è presente in importati spazi museali pubblici come il Museo Pigorini di Roma ( a cui la Famiglia Berger ha donato oltre mille oggetti “BETEL” ) e la Biblioteca Ambrosiana di Milano, a cui Paola e Giuseppe Berger donarono parte della collezione di placche VIRABHADRA . Grazie alla disponibilità degli eredi di Giuseppe Berger, possiamo oggi esporne la restante parte, quella più  più intima e privata. 

ICONOGRAFIA

Le placche, databili tra il XVII E IL XIX secolo, sono realizzate in metalli diversi, mediante fusione a cera persa o a sbalzo. Ganci ed  anelli indicano l’uso di appenderle nei tempietti di famiglia, la presenza di un manico sul retro che ne consente l’impugnatura rimanda invece ad un uso cerimoniale. Sostanzialmente si conoscono due stili: uno più accurato nel dettaglio, definito aulico, l’altro più essenziale, conosciuto come tribale. La struttura ad arco evoca l’alone di luce che accompagna l’apparizione di un essere divino; dall’alto verso il basso possiamo trovare   al centro un mascherone leonino, ai lati il sole e la luna, il linga yoni, che simboleggia l’unione tra il dio e la dea,  e il toro Nandi, simbolo della cavalcatura di Shiva oppure  Il cobra , singolo o policefalo ma sempre in numero dispari; il volto di Virabhadra è sempre rappresentato come irato e feroce,   il terzo occhio e/o i tre segni sulla fronte indicano la devozione a Shiva. Le braccia possono essere fino a dieci, ed impugnano armi e simboli diversi. In basso, ai lati, si trovano abitualmente Daksa, rappresentato con la testa del montone,  e Sati, manifestazione serena della moglie di Shiva,  o Kali , la sua declinazione terrifica.

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Togu na, la Casa parla/ Togu na, the house speaks

La Casa della Parola dei Dogon parla fin dal modo in cui è fatta ed è posizionata…
The Dogon House of the Word speaks from its forms, and position…

E’ raro che da questa parte del mondo gli spazi abitativi comuni ( villaggi, città quartieri, città..) siano stati progettati secondo una visione che vada oltre le necessità funzionali. C’è stata nel passato  una attenzione agli elementi naturali ( luce, presenza dell’acqua, venti.. ) e nel caso degli edifici di culto un orientamento rispetto al sorgere del sole, ma non pare ci sia stato  interesse verso elementi più trascendenti.

Non è certamente il caso delle culture che ci ostiniamo a definire ”primitive.” I popoli Pigmei della foresta dell’Ituri, ad esempio, smontano e rimontano le loro semplici capanne secondo un preciso schema valoriate prima che funzionale, i Dogon del Mali orientano i loro villaggi secondo criteri ben precisi, da nord a sud, dando loro una forma “urbanistica” che ricordi un uomo supino, potremmo dire sdraiato per guardare le Stelle. La testa di questo uomo immaginato ( o meglio evocato) è il Togu na. Togu significa riparo, na significa madre. Il Togu na è quindi il Grande Riparo, Madre Riparo. i Dogon lo indicano anche come “Casa della Parola” (la parola pronunciata nel togu na assume valori ed importanza che la differenziano da ogni altra) Sede specifica della parola “seduta”, calma e ponderata, è il centro nel quale si assumono le decisioni che governano il villaggio. La forma rimanda al  riparo dove si riunirono gli otto antenati primordiali, ciascuno dei quali è identificato con un pilastro, spesso scolpiti con immagini antropozoomorfe. L’impianto ideale del Togu na è rettangolare, orientato secondo i punti cardinali, ma vi  sono numerose  varianti sia nella forma che nei materiali. In generale si tratta di una bassa costruzione definita da tre file di pilastri lignei o in pietra, e da una travatura che sostiene  una copertura fatta di strati sovrapposti di materiale vegetale, normalmente steli di miglio,  con la funzione pratica di riparare efficacemente dal sole senza impedire la ventilazione. Che ogni elemento di quella cultura, compresi quelli materiali,  sia destinato a parlare, lo dicono le caratteristiche  comuni ad ogni Togu Na.  Le dimensioni sono sempre tali da permettere che la parola espressa in tono calmo e normale possa raggiungere chiunque sieda sotto al grande riparo e l’altezza dello spazio utile interno è sempre ridottissima, al fine di impedire  alla persona  di rimanere in piedi. Si può veramente dire che la Casa della Parola parla fin dal suo modo di essere! Anche la presenza  pressoché costante di un grande fico nelle immediate vicinanze del Togu na ha una funzione sia pratica che simbolica: serve insieme ad individuare facilmente il luogo anche da lontano, ed evoca un antico proverbio Dogon, “ l’ombra del fico è come il riparo della parola”.

It is rare that in this part of the world common living spaces (villages, cities, neighborhoods, cities…) have been designed according to a vision that goes beyond functional needs. In the past there has been attention to natural elements (light, presence of water, winds…) and in the case of buildings of worship an orientation towards the rising of the sun, but there does not seem to have been an interest in more transcendent elements.

This is certainly not the case with cultures that we persist in defining as “primitive.” The Pygmy people of the Ituri forest, for example, dismantle and reassemble their simple huts according to a precise scheme that values ​​rather than functions, the Dogon of Mali orient their villages according to very specific criteria, from north to south, giving them a shape “urban planning” that recalls a supine man, we could say lying down to look at the Stars. The head of this imagined (or rather evoked) man is the Togu na. Togu means shelter, na means mother. The Togu na is therefore the Great Shelter, Mother Shelter. the Dogon also indicate it as the “House of the Word” (the word pronounced in the togu na takes on values ​​and importance that differentiate it from any other) Specific seat of the word “sitting”, calm and thoughtful, is the center in which decisions are made who govern the village. The shape refers to the shelter where the eight primordial ancestors gathered, each of which is identified with a pillar, often carved with anthropozoomorphic images.

The ideal layout of the Togu na is rectangular, oriented according to the cardinal points, but there are numerous variations in both shape and materials. In general it is a low construction defined by three rows of wooden or stone pillars, and by a beam that supports a covering made of overlapping layers of plant material, normally millet stems, with the practical function of effectively protecting from the sun without prevent ventilation. The characteristics common to each Togu Na say that every element of that culture, including the material ones, is destined to speak. The dimensions are always such as to allow the word expressed in a calm and normal tone to reach anyone sitting under the large shelter and the height of the internal useful space is always very low, in order to prevent the person from remaining standing. It can truly be said that the House of the Word speaks from its way of being! Even the almost constant presence of a large fig tree in the immediate vicinity of the Togu na has both a practical and symbolic function: it serves both to easily identify the place even from afar, and evokes an ancient Dogon proverb, “the shadow of the fig tree is like the shelter of the word”.

Giuliano Arnaldi, Onzo 24 settembre 2024

le foto sono tratte da Togu Na, Spini – Electa 1976

palo di Togu na, Collezione Tribaleglobale pro. G.F.Scanzi cm 206

Palo di Togu na Collezione Tribaleglobale cm 169 prov. G.F.Scanzi

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COMBS /„Tutti i nodi vengono al pettine. Quando c’è il pettine.“

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Per la presentazione della nostra collezione di pettini ho scelto una frase di Leonardo Sciascia; definisce in modo caustico ed essenziale l’importanza che riconosciamo a questo piccolo oggetto d’uso quotidiano, ne svela il profondo significato simbolico e concettuale.  Come nasce un pensiero, o meglio, come nasce il pensiero, come si evolve fino a diventare un sistema complesso ed articolato che diventa cultura? Si può certamente dire che fino dall’antichità più remota l’osservazione di gesti istintivi fondamentali per la sopravvivenza , l’interiorizzazione del loro manifestarsi che ne qualifica l’utilità funzionale, sono l’insieme fondante del processo di conoscenza . Osservare, comprendere, astrarre e concettualizzare una esperienza ponendola in relazione ad altre, rende quella esperienza patrimonio culturale. E l’essere umano è sempre partito dal proprio corpo, dal modo in cui esso si fa strumento per governare il mondo circostante fin dalle azioni più semplici. 

Pensate alla mano, primo strumento che districa i peli incolti del primate ( e poi dell’uomo), che lo aiuta ad aprirsi un varco nella radura. Probabilmente il primo pettine è nato così, realizzato da qualcuno che osservò la propria mano e la riprodusse nella forma, che parte spessa e solida per dipanarsi in una serie di elementi appuntiti. Come la   mano districa i capelli, apre la strada nella foresta, i denti del pettine mettono ordine nei capelli e li liberano da parassiti. E non deve essere un caso che gli elementi terminali del pettine siano chiamati da sempre denti. 

I pettini presentati in questa pubblicazione provengono da aree geografiche e culturali profondamente diverse tra loro. Africa, Oceania e Indonesia, India. il linguaggio estetico, i materiali usati, i riferimenti simbolici ne dichiarano l’appartenenza culturale e geografica, ma  hanno origine comune.

Osserva Donatella Dolcini, Professore Ordinario di Lingua Hindi e Cultura Indiana presso Università Statale Milano (UNIMI) nel catalogo che presentò la collezione di pettini raccolta da Giuseppe Berger : “Al pari di dita/unghie, anche i denti svolgono una funzione di primaria importanza nel ritmo quotidiano della vita dell’uomo, permettendogli di incidere il cibo così da ridurlo immediatamente da un complesso unico e coeso – difficile da inghiottire, grande o piccolo che sia – a uno almeno grossolanamente parcellizzato. In sostanza, una variante del gioco delle dita che dividono un unico blocco in porzioni (strisce) più minute e agevoli da gestire. E infine l’elaborazione del pettine, dal mero uso primario, direttamente disceso dall’analogia con la mano, a quello mediato dalla dentatura, giunge a quel terzo stadio, immancabile nei processi di manifattura dell’uomo, che è il lato estetico. La mano-pettine, che in seconda battuta aveva incorporato anche l’imitazione della funzione dentaria, diventa alla fine un oggetto ancora più evoluto, in cui si manifesta non più solo la concreta estensione tecnologica di organi naturali, ma anche il libero apporto della creatività umana. Così la forma del pettine si abbellisce con l’eventuale aggiunta di un manico più o meno elaborato e di ghirigori che vanno ad impreziosire l’impugnatura, e modifica la propria misura fino a diventare il pettinino, un grazioso e aggraziato complemento della toilette e dell’abbigliamento soprattutto femminile.“ 

Il valore insieme semplice e profondo di questo tipo di oggetti è sorprendente, manifesta in modo netto la capacità umana di elaborare esperienze e migliorarle costantemente mediante un perfezionamento tecno logico che non è prodotto da macchine ma dall’ingegno. Ed è altrettanto sorprendente la necessità di rendere l’oggetto non solo funzionale ma anche bello, caricandolo di contenuti simbolici evocativi che spesso sono destinati ad amplificarne metaforicamente la funzione. Nei pettini delle culture Ivoriane, in gran parte raccolte da Giovanni Franco Scanzi negli anni sessanta del secolo scorso, l’elemento identitario è evidente. Le forme rimandano a figure di Antenati Ancestrali, oggetti sacri, animali il cui potere energetico, per il tramite dell’oggetti, potrà aiutare chi lo usa.  Nel caso degli antichi pettini in avorio provenienti dalla Collezione Berger, in gran parte “scritti” con la figura di Ganesh, sempre Dolcini nota giustamente “Forse la ricorrente iconografia sul pettinino del dio elefante (Ganesh appunto) potrebbe collegarsi all’immagine simbolica che la capacità del pachiderma a farsi largo nella fitta vegetazione della giungla, penetrandovi dentro, suscita riguardo al figlio di Shiva, adorato infatti anche come rimovitore degli ostacoli.

For the presentation of our collection of combs I chose a phrase from the Sicilian writer Leonardo Sciascia; defines in a caustic and essential way the importance we recognize in this small object of everyday use, revealing its profound symbolic and conceptual meaning.

How does a thought arise, or rather, how does thought arise, how does it evolve to become a complex and articulated system that becomes culture? It can certainly be said that the observation of instinctive gestures fundamental for survival since the most remote antiquity, the internalization of their manifestation, the fundamental elements that qualify their functional usefulness are the founding whole of the knowledge process. Observing, understanding, abstracting and conceptualizing an experience by placing it in relation to others makes that experience cultural heritage. And the human being has always started from his own body, from the way in which it becomes an instrument to govern the surrounding world starting from the simplest actions.

Think of the hand, the first tool that untangles the unkempt hair of the primate (and then of man), which helps him to open a path in the clearing. The first comb was probably born like this, made by someone who observed his own hand and reproduced its shape, which starts out thick and solid and then unravels into a series of pointed elements. As the hand untangles the hair, opens the way in the forest, the teeth of the comb tidy up the hair and free it from parasites. And it must not be a coincidence that the terminal elements of the comb have always been called teeth. The combs presented in this publication come from profoundly different geographical and cultural areas. Africa, Oceania and Indonesia, India. the aesthetic language, the materials used, the symbolic references declare their cultural and geographical belonging, but they have a common origin.

Donatella Dolcini, Full Professor of Hindi Language and Indian Culture at the Milan State University (UNIMI) observes in the catalog that presented the collection of combs collected by Giuseppe Berger: “Like fingers/nails, teeth also perform a function of primary importance in daily rhythm of man’s life, allowing him to affect food so as to immediately reduce it from a single and cohesive complex – difficult to swallow, large or small – to one that is at least roughly fragmented. In essence, a variant of the game of fingers that divide a single block into smaller and easier to manage portions (strips). And finally the development of the comb, from the mere primary use, directly descended from the analogy with the hand, to that mediated by the teeth, reaches that third stage, inevitable in man’s manufacturing processes, which is the aesthetic side. The hand-comb, which subsequently also incorporated the imitation of the dental function, ultimately becomes an even more evolved object, in which not only the concrete technological extension of natural organs is manifested, but also the free contribution of creativity Human. Thus the shape of the comb is embellished with the possible addition of a more or less elaborate handle and curlicues that embellish the handle, and changes its size until it becomes the comb, a graceful and graceful complement to the toilet and the ‘especially women’s clothing.“

The simple and profound value of this type of object is surprising, it clearly demonstrates the human ability to process experiences and constantly improve them through technological improvement that is not produced by machines but by ingenuity. And equally surprising is the need to make the object not only functional but also beautiful, loading it with evocative symbolic contents which are often intended to metaphorically amplify its function.

In the combs of the Ivorian cultures, largely collected by Giovanni Franco Scanzi in the sixties of the last century, the element of identity is evident. The shapes refer to figures of Ancestral Ancestors, sacred objects, animals whose energetic power, through the objects, can help those who use it. In the case of the ancient ivory combs from the Berger Collection, largely “written” with the figure of Ganesh, Dolcini rightly notes “Perhaps the recurring iconography on the comb of the elephant god (Ganesh precisely) could be connected to the symbolic image that the pachyderm’s ability to make its way through the dense vegetation of the jungle, penetrating it, arouses respect for the son of Shiva, who is also worshiped as a remover of obstacles.“

Giuliano Arnaldi, Onzo 21 settembre 2023

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Un’archetipo suggestivo: Chi Wara.

Maschera ad elmo Chiwara/ Sogolikun. Cultura Bamana, Mali.

Legno. Cm 46 Provenienza collezione privata, Spagna, Native Auction.

( Il nome Sogonikun è dato a un tipo di cimiero e figura mascherata che apparve a Wasolon e fu adottato nelle regioni vicine. ). Per un esemplare molto simile si veda Sotheby’s, NYC 7557 pag 23 figura 17

La vita sociale, economica e spirituale dei Bamana, nel sud-ovest del Mali, è governata da sei società di iniziazione conosciute collettivamente come dyow (sing. dyo). Le sei società sono n’domo, komo, nama, kono, chi wara e kore. Un Bamana deve passare rispettivamente attraverso tutte e sei i livelli di iniziazione per essere considerato un uomo completo con una visione completa degli insegnamenti e delle tradizioni ancestrali.

Ogni società di iniziazione ha il proprio tipo di maschera associato (per lo più zoomorfa, cioè basata su forme animali) tra cui i copricapi agricoli di antilopi chi wara (chiamato anche ci wara / tyi wara che significa ‘animale selvatico al lavoro’) dyo. L’obiettivo principale del chiwara dyo è quello di educare gli uomini alle migliori pratiche agricole e di onorare Chi Wara, l’eroe culturale dei Bamana, che ha creato le conoscenze relative alla coltivazione della terra ai Bamana. I membri del chi wara dyo si esibiscono in danze mascherate non solo per celebrare il loro mito, Chi Wara, ma anche per garantire la fertilità dei loro campi e pregare gli dei per un buon raccolto. Le celebrazioni vengono utilizzate anche per riconoscere pubblicamente l’esperienza degli agricoltori di successo.

Le antilopi scolpite sono conosciute come Chiwara o  come “Tijwara”“la bestia che lavora” (“tij”: lavoro, “wara”: animale selvatico). Ricordano un essere mitico, metà uomo e metà animale, che in un passato leggendario insegnò all’uomo come coltivare la terra. Ma quando il grano abbondava, gli uomini cominciarono a sprecarlo. “Tijwara” si seppellì nel terreno e gli uomini, dopo averlo perso, scolpirono una scultura in sua memoria. “Tijwara” appare in coppie, una figura maschile ed una  femminile, scolpite in legno e fissate ad un copricapo di vimini. I ballerini, curvi  su bastoni di legno a simulare le zampe anteriori dell’animale, erano  erano completamente nascosti da mantelli di fibre vegetali. Il significato centrale di “tijwara” originariamente era quello di incoraggiare la coltivazione collettiva della terra con la zappa. Di conseguenza si esibivano in tre occasioni: sarchiatura competitiva, danze di gioia dopo il lavoro collettivo sul campo e celebrazione annuale della società di iniziazione. 

The name Sogonikun is given to a type of crest and masked figure that appeared in Wasolon and was adopted in neighboring regions. Like the Ci-wara, these crests are characteristic of a village association (ton). They appeared in the village or in the fields during the competitions in which the peasants were engaged. Groups of itinerant dancers could go from village to village (see P. Imperato, 1981). (see Bambara, Rietberg Museum 2002 page 221 figure 207

The social, economic and spiritual lives of Bamana men, in Southwestern Mali, are governed by six initiation societies collectively known as dyow (sing. dyo). The six societies are n’domo, komo, nama, kono, chi wara and kore. A Bamana man must pass through all six initiation societies respectively to be considered a rounded man with full insight into ancestral teachings and traditions.

Each initiation society has its own associated mask type (mostly zoomorphic, i.e. based on animal forms) including the chi wara (also called ci wara / tyi wara meaning ‘labouring wild animal’) dyo’s antelope agriculture headdresses. The main aim of the chi wara dyo is to educate men on farming best practices and to honour Chi Wara, the cultural hero of the Bamana, who thought the skills of land cultivation to the Bamana. Members of the chi wara dyo perform dances with masquerades to not only celebrate their hero, Chi Wara, but to also ensure the fertility of their fields and to pray to the gods for a good harvest. The celebrations are also used to publicly acknowledge the expertise of successful farmers.

NOTE: The circumcised youth ton associations and the voluntary gonzon society also make use of headdresses similar to chi wara called n’gonzon koun.

Fonte Imodara.com 

The carved antelopes are known as Chiwara or “tijwara” – “the beast who labors” (“tij”: work, “wara”: wild animal). They recall a fabulous being, half man, half animal, who in legendary past thaught man how to cultivate the earth. But as grain grew abundant, men began to waste it. “Tijwara”buried himself in the ground, and men, having lost him, carved a sculpture in his memory.

“Tijwara” appear in male and female pairs on basketry caps. The dancers were bent over forelegs of wooden sticks and were completely hidden by cloaks of plant fibre.

The central meaning of “tijwara” originally was to encourage the collective farming of land with the hoe. Accordingly they performed on three occasions: competitive weeding, dances of joy after the collective field work was done and at the annual celebration of the initiation society.

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Bwoom, a royal Kuba Mask. Una Maschera reale Kuba

Maschera Bwoom, Cultura Kuba, R.d.Congo, metà del XX secolo legno, caori, perline, pelle, cm 34 prov. Christie’s 6/03/1990 Arte Primitivo Barcellona

Questa maschera ad elmo, chiamata Bwoom, danza durante le cerimonie di iniziazione maschile (nkaan); esse hanno la funzione di insegnare agli iniziati la storia, i valori culturali di Kuba e di onorare la memoria di Woot (il padre fondatore e antenato di tutti i re Kuba). Le opinioni su ciò che rappresenta Bwoom sono diverse : alcune fonti indicano che la maschera rappresenta un principe (fratello minore del re), afflitto da un problema neurologico che provocava il gonfiore della testa, altre che sia l’immagine di uno degli abitanti originari della regione, i Pigmei Twa, altre ancora che bwoom sia stato creato per il re regnante dell’epoca, Miko mi-Mbul, creata in alternativa alla maschera reale mwaash ambooy, per essere indossata dal re per curare la sua malattia mentale (da qui la sua descrizione locale “una persona di basso rango poco degna di essere incarnata dal re”). Bwoom è universalmente ritenuto uno spirito della natura (ngesh; pl. mingesh) che appare agli iniziati nkaan ed aiuta a potenziare l’influenza positiva degli spiriti della natura sulla vita dei Kuba.

This helmeted mask, called Bwoom, dances during male initiation ceremonies (nkaan); they have the function of teaching initiates the history and cultural values ​​of the Kuba people and honoring the memory of Woot (the founding father and ancestor of all Kuba kings). There are different opinions on what Bwoom represents: some sources indicate that the mask represents a prince (younger brother of the king), afflicted by a neurological problem that caused the head to swell, others that it is the image of one of the original inhabitants of the region, the Twa Pygmies, others that Bwoom was created for the reigning king of the time, Miko mi-Mbul, created as an alternative to the royal mask Mwaash ambooy, to be worn by the king to cure his mental illness (hence the his local description “a person of low rank hardly worthy to be embodied by the king”). Bwoom is universally believed to be a nature spirit (ngesh; pl. mingesh) who appears to Nkaan initiates and helps to enhance the positive influence of nature spirits on the lives of the Kuba.

Giuliano Arnaldi, Onzo giugno 2023

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Ngontang helmet mask,a proposito di un Casco Fang 

Maschera ad elmo Ngontang, Cultura Fang . Metà del XX secolo. Legno, caolino, pigmenti naturali h. cm 27. 

Prov. Fernandez Leventhal- NYC – e Arte Primitivo-  Barcellona –  

Le maschere  provenienti da quello che oggi chiamiamo Gabon, e che come sempre accade in Africa è invece una terra che ospita popoli organizzati e definiti ben oltre i confini del colonialismo occidentale , sono tra le più ricercate ( e falsificate) . Ed i popoli Punu e Fang sono tra quelli che maggiormente hanno prodotto  questo tipo di manufatti. Le maschere sono caratterizzate da lineamenti delicati, quasi eterei, enfatizzati dal colore bianco del caolino, e danzano in circostanze particolari. La nostra  maschera ad elmo, proveniente dalle Gallerie Fernandez Leventhal  di  NYC e Arte Primitivo di Barcellona, ha danzato durante la cerimonia nota come Ngontang. celebrata a quanto risulta dalla comunità Fang nell’attuale Gabon settentrionale, Guinea equatoriale e Camerun meridionale fino alla metà del XX secolo . L’etimologia di ngontang (o nlo-ñgontang) sembra essere una contrazione del termine Fang nlo ñgon ntañga: testa (nlo) della fanciulla o figlia (ngon/ñgon) europea (ntañga; anche ntanghe/ntangha/ntaña) . Sulla base di questo nome e di attributi formali, si pensa che questa tipologia sia emersa  in relazione alla presenza sempre più vistosa di commercianti, missionari e personale coloniale occidentali il cui numero crescente in Gabon e nelle aree circostanti ha profondamente cambiato  le culture locali tra la metà e la fine del XIX secolo secolo. E’ suggestiva la teoria riportata da Joshua I. Cohen, 2016 ( https://www.metmuseum.org/art/collection/search/314285 ) secondo cui “ Durante e prima di questo primo periodo coloniale, si dice che i Fang ed altri popoli equatoriali e dell’Africa centrale abbiano visto connessioni  – o abbiamo addirittura confuso – tra occidentali ed esseri soprannaturali. L’aspetto fisico insolito, le nuove tecnologie e la presenza violentemente dirompente di europei e americani nella regione hanno senza dubbio contribuito a questa credenza, così come l’associazione  tra gli occidentali e l’acqua ( ad esempio dovuta dal  fatto che  essi arrivavano dall’altra parte dell’oceano, territorio ignoto alle popolazioni locali ) così come  il colore bianco della pelle, colore associato nella tradizione locale con gli spiriti e la terra dei morti. I lineamenti delicati e le carnagioni chiare dei volti delle maschere ngontang suggeriscono quindi qualità sia femminili che ultraterrene.” Penso sia certamente una prova del valore narrativo delle manifestazioni creative africane, sempre tese a comprendere il nuovo, tradurlo nel proprio linguaggio estetico ed interiorizzarlo mediante quell’alfabeto fatto di segno, colore, materia che sono le maschere ed il loro uso dinamico. Si spiega così ad esempio anche la presenza nella iconografia  Baulè della figura dei Coloni, ed in genere di elementi tipicamente occidentali. Per quei popoli, ed in genere per le culture extraeuropee, l’arte è indagine della realtà quotidiane e di stati di coscienza, con il fine di governare la complessità della vita. Tornando al nostro casco Fang,  sempre secondo Cohen “ la presenza di più volti ( nel nostro caso quattro) può servire per indicare poteri di percezione accresciuti nel regno degli spiriti e, se integrati in un insieme di costumi, per impressionare il pubblico…( inoltre  ) ..una didascalia del 1917 pubblicata in riferimento a un’altra maschera ngontang nella collezione del Met (1979.206.24) nota che la maschera ballava “nelle notti di luna piena”. Pur non essendo certo, forse questo riflette l’ associazione fatta dai  Fang tra la  femminilità ed i cicli della luna: i motivi lunari spesso adornano i volti delle maschere ngontang”.

Ngontang helmet mask, Fang Culture. Mid 20th century.

Wood, kaolin, natural pigments h. 27cm.

Prov. Fernandez Leventhal- NYC – and Arte Primitivo- Barcelona –

The masks from what we now call Gabon, and which as always happens in Africa is instead a land that hosts organized and defined peoples far beyond the borders of western colonialism, are among the most sought after (and falsified). And the Punu and Fang peoples are among those who mostly produced this type of artefacts. The masks are characterized by delicate, almost ethereal features, emphasized by the white color of the kaolin, and dance in particular circumstances. Our helmet mask, from the Fernandez Leventhal Galleries in NYC and Arte Primitivo in Barcelona, danced during the ceremony known as Ngontang. reportedly celebrated by the Fang community in what is now northern Gabon, Equatorial Guinea and southern Cameroon until the mid-20th century. The etymology of ngontang (or nlo-ñgontang) seems to be a contraction of the term Fang nlo ñgon ntañga: head (nlo) of the European maiden or daughter (ngon/ñgon) (ntañga; also ntanghe/ntangha/ntaña) . Based on this name and formal attributes, this typology is thought to have emerged in connection with the increasingly conspicuous presence of Western traders, missionaries, and colonial personnel whose growing numbers in Gabon and surrounding areas profoundly changed local cultures among the mid to late 19th century. The theory reported by Joshua I. Cohen, 2016 ( https://www.metmuseum.org/art/collection/search/314285  ) according to which ” During and before this first colonial period, it is said that the Fang and other Equatorial and Central African peoples have seen connections – or have even confused – between Westerners and supernatural beings. The unusual physical appearance, new technologies and the violently disruptive presence of Europeans and Americans in the region have undoubtedly contributed to this belief, as well as the association between Westerners and water (for example due to the fact that they came from other side of the ocean, a territory unknown to the local populations) as well as the white color of the skin, a color associated in local tradition with spirits and the land of the dead. The delicate features and pale complexions of the faces of the ngontang masks thus suggest both feminine and otherworldly qualities.” I think it is certainly proof of the narrative value of African creative manifestations, always aimed at understanding the new, translating it into their own aesthetic language and internalizing it through that alphabet made up of signs, colours, materials which are masks and their dynamic use. This also explains, for example, the presence in the Baulè iconography of the figure of the Coloni, and in general of typically Western elements. For those peoples, and in general for non-European cultures, art is an investigation of everyday realities and states of consciousness, with the aim of governing the complexity of life. Going back to our Fang helmet, again according to Cohen “the presence of several faces (in our case four) can serve to indicate increased powers of perception in the realm of spirits and, if integrated into a set of costumes, to impress the public… (moreover ) ..a 1917 caption published in reference to another ngontang mask in the Met’s collection (1979.206.24) notes that the mask danced “on full moon nights”. While not certain, perhaps this reflects the association made by the Fang between femininity and the cycles of the moon: lunar motifs often adorn the faces of ngontang masks

Giuliano Arnaldi, Onzo 18 maggio 2023

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focus/cucchiaio dan/dan spoon

Un’icona: wakemia

E’ un’oggetto diventato iconico. le forme ardite ma perfette nella loro armonia misteriosa sprigionano una potenza archetipale. Appare istintivamente normale pensare ad una figura femminile, all’essenza della della figura femminile. Le gambe, il sesso pronunciato, l’insieme della parte centrale sono esplicite, ma avere concentrato nella parte alta, dove nella realtà si trova la testa, una grande forma concava non è solo funzionale all’uso per cui questo oggetto è pensato, ma racconta con una immagine la qualità sapienziale femminile: raccogliere la vita, custodirla, nutrirla. In questo semplice oggetto d’uso c’è l’essenza dell’alfabeto metaforico usato dalle culture Primarie, cosi semplice nell’evocare narrazioni sugli aspetti più significativi dell’esperienza umana.

E’ tra gli oggetti più ricercati ( e costosi ) nel mercato delle Arti Primarie. I più blasonati fanno nelle aste cifre a cinque zeri. Ed inesorabilmente è tra i più falsificati, fatto che porta chi acquista i pedigree invece della qualità a non prendere in considerazione quasi mai gli Wakemia senza provenienza certa, anche perché non è semplice distinguere un’opera originale da una copia ben fatta.

In questo caso l’oggetto dichiara la sua autenticità sia grazie al suo rigore formale, sia alla patina d’uso; è evidente che l’usura delle scarificazioni riprodotte nella parte centrale non può essere stata fabbricata ad arte.

E’ doverosa qualche informazione specifica : questo cucchiaio wakemia ( 0 wunkirmian ) è espressione della cultura del popolo Dan ( Costa d’Avorio ), è realizzato in legno duro con una patina molto scura, e misura 49,8 centimetri di altezza. E’ stato raccolto in situ oltre vent’anni fa ma ragionevolmente risale alla metà del secolo scorso; venne messo al riparo dai saccheggi e dal vandalismo legati alla lunga serie di guerre che hanno dilaniato quelle terre ed è stato gelosamente custodito per lunghi anni ad Abidjan da un noto antiquario locale e poi dai suoi nipoti.

” I grandi cucchiai cerimoniali sono scolpiti per onorare una specifica donna Dan di che si è distinta nella comunità di origine per generosità e ospitalità. Nelle ricorrenze importanti danza con il cucchiaio e dirige la distribuzione del riso ai convenuti. Divenuta anziana e riconosciuta come autorevole, passa il cucchiaio e il prestigio che ne deriva a colei che ritiene essere la più adeguata a succederle. I cucchiai sono conosciuti con molti nomi, tra cui wakemia o wunkirmian, che si traduce approssimativamente come “cucchiaio associato alle feste”. I cucchiai hanno dimensioni variabili da un piede a due piedi e hanno una o (raramente) due palette concave parallele. Il manico del cucchiaio è sempre decorato e spesso è legato alla forma umana e spesso presenta un paio di gambe come questo esemplare.
Tra i Dan, la proprietaria del cucchiaio è chiamata wa ke de, “donne che recitano alle feste”. È un titolo di grande distinzione, e viene viene dato alla donna più ospitale del paese. Con l’onore, tuttavia, viene la responsabilità di preparare la grande festa che accompagna le cerimonie mascherate. Dovendo accogliere e celebrare adeguatamente gli spiriti mascherati, le wa ke devono avere eccellenti capacità agricole, talento organizzativo e abilità culinarie i.
Quando una donna è stata scelta come padrona di casa principale per un simile evento, sfila per la città portando il cucchiaio grande come emblema del suo status. Il giorno della festa balla per il villaggio vestita da uomo perché “solo gli uomini sono presi sul serio”. Porta con sé un wunkirmian e mostra una ciotola piena di piccole monete o riso. Con l’aiuto dei suoi numerosi assistenti (di solito parenti o amiche), distribuisce cereali e monete ai bambini della comunità mentre balla e canta una speciale canzone con voce stridula. Il ventre profondo del cucchiaio da cui viene dispensata questa generosità diventa il corpo simbolico o grembo della figura femminile. L’evento crea una profonda analogia visiva che onora la padrona di casa, e le donne in generale, come fonte di cibo e di vita.
Oltre ad essere emblemi d’onore, i wunkirmian hanno anche un potere spirituale. Sono il principale collegamento di una donna Dan con il potere del mondo degli spiriti e un simbolo di quella connessione. Tra i Dan, ai wunkirmian è stato assegnato un ruolo tra le donne paragonabile a quello che le maschere svolgono tra gli uomini. In molti casi, i wunkirmian sono presenti nelle stesse cerimonie con maschere, lanciando riso davanti a loro come benedizione mentre procedono attraverso il villaggio. (Fonte: Metropolitan Museum of Art)

It is an object that has become iconic. the bold but perfect shapes in their mysterious harmony release an archetypal power. It seems instinctively normal to think of a female figure, of the essence of the female figure. The legs, the pronounced sex, the whole of the central part are explicit, but having concentrated in the upper part, where the head is actually located, a large concave shape is not only functional to the use for which this object was designed, but it tells with an image the female sapiential quality: gathering life, guarding it, nourishing it. In this simple object of use there is the essence of the metaphorical alphabet used by Primary cultures, so simple in evoking narratives on the most significant aspects of human experience.

It is among the most sought after (and expensive) objects in the Primary Arts market. The most famous ones make five-figure figures in auctions. And inexorably it is among the most falsified, a fact that leads those who buy pedigrees instead of quality to almost never take into consideration Wakemias without certain provenance, also because it is not easy to distinguish an original work from a well-made copy.

In this case the object declares its authenticity both thanks to its formal rigor and the patina of use; it is evident that the wear of the scarifications reproduced in the central part could not have been artfully manufactured.

Some specific information is required: this wakemia spoon ( 0 wunkirmian ) is an expression of the culture of the Dan people ( Ivory Coast ), is made of hard wood with a very dark patina, and measures 49.8 cm in height. It was collected in situ over twenty years ago but reasonably dates back to the middle of the last century; it was sheltered from looting and vandalism linked to the long series of wars that tore those lands apart and was jealously guarded for many years in Abidjan by a well-known local antique dealer and then by his nephews.



"Large ceremonial ladles are carved to honor a particular Dan woman from each village quarter who has distinguished herself among her fellow women by generosity and hospitality. At special feasts, she dances with the ladle and directs the distribution of rice to those assembled. An elderly honouree passes the ladle and the honour on to the one she sees fit as a successor.
Artists in Dan communities of the Guinea coast have mastered the art of carving impressive, large wooden spoons that are virtuos works of sculpture. The spoons are known by many names, including wake mia or wunkirmian, which roughly translates as “spoon associated with feasts.” The spoons range in size from a foot to two feet and have one or (rarely) two parallel bowls. The handle of the spoon is always decorated and often is related to the human form and often feature a pair of legs like this example.
Among the Dan, the owner of the spoon is called wa ke de, “at feasts acting woman.” It is a title of great distinction that is given to the most hospitable woman of the village. With the honor, however, comes responsibility—the wa ke de must prepare the large feast that accompanies masquerade ceremonies. The excellent farming abilities, organizational talents, and culinary skills of the wa ke de are called upon to properly welcome and celebrate the masquerade spirits.
When a woman has been selected as the main hostess of such a feast, she parades through town carrying the large spoon as an emblem of her status. On the day of the feast, she dances around the village dressed in men’s clothes because “only men are taken seriously.” She carries with her a wunkirmian and displays a bowl filled with small coins or rice. With help from her numerous assistants (usually female relatives or friends), she distributes grains and coins to the children of the community while dancing and singing her special shrill song. The deep belly of the spoon from which this bounty is dispensed becomes the symbolic body or womb of the female figure. The event creates a profound visual analogy that honors the hostess, and women in general, as a source of food and life.
In addition to being emblems of honor, wunkirmian also have spiritual power. They are a Dan woman’s chief liaison with the power of the spirit world and a symbol of that connection. Among the Dan, the wunkirmian have been assigned a role among women that is comparable to that which masks serve among the men. In many instances, wunkirmian are featured in the same ceremonies with masks, tossing rice in front of them as a blessing while they proceed through the village.(Source: Metropolitan Museum of Art)

Giuliano Arnaldi, Onzo 26 giugno 2023