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LA CASA DEGLI ARTISTI di Cosio d’Arroscia 2/ CoBrA!

Casa degli artisti, Cosio d’Arroscia.
Rete MAP MUSEO NOMADE DI ARTI PRIMARIE

In qualche modo l’esperienza dell’internazionale Situazionista, nata nel 1957 a Cosio d’Arroscia, nacque da una breve, intensa e lungimirante avventura artistica conosciuta come C0.Br.A. Il gruppo deve il nome alle città di provenienza dei fondatori, Copenaghen, Brussels, Amsterdam. Asger Jorn, Pierre Alechinsky, Karel Appel e altri tra cui Corneille e Vardercam . Nonostante la breve durata ( dal 1948 al 1951, con solo due mostre all’attivo ) quel modo di fare arte, così “brutale”, immediato e istintivo cambiò il modo stesso di intendere la pittura e la stessa idea di opera artistica. La critica radicale del mercato arrivò fino a cambiare la percezione del rapporto tra opera, artista e collezionista, e pose le basi per giungere qualche anno dopo alla provocatoria pittura industriale venduta a metro del “Situazionista” Pinot Galizio. In realtà gli Artisti del Co.Br.A. furono sperimentatori di nuove tecniche, facendo della riproduzione seriale di un’opera d’arte una esperienza non solo legata alla necessità di rendere l’accesso all’arte più economico ( e quindi più “democratico) . Le opere vennero “pensate” per essere riprodotte con tecniche di stampa particolari, spesso rese di fatto uniche con interventi originali e specifici sulle diverse copie, e gli stampatori vennero coinvolti nella creazione artistica. E’ particolarmente significativa in questa ottica l’esperienza dei Fratelli Pozzo di Torino e delle loro Edizioni d’Arte, dirette non a caso da Ezio Gribaudo, Artista poi divenuto Presidente Emerito della Accademia Albertina di Torino. La Prova d’Artista di Asger Jorn del 1970, che esponiamo in questa occasione, proviene da questa esperienza. Anche le altre opere in esposizione. La Prova d’Artista di Karel Appel , iconica nel linguaggio estetico di quel movimento, è stampata su pergamena, mentre la Prova d’Artista di Pierre Alechinsky è realizzata con tecniche diverse, dall’incisione alla fotografia. Certamente ci furono anche Artisti che della serialità dell’opera d’arte fecero un uso più “estetico” e conseguentemente commerciale, come testimonia la litografia di Corneille, ancorché realizzata in una bassa tiratura.

L’opera di Serve Vandercam è invece un dipinto su carta riportato su tela

“ Asger Jorn: dipingere con la tipografia” La testimonianza di Ezio Gribaudo “ Ho conosciuto Asger Jorn nei primi anni sessanta, durante la preparazione di un volume che ho stampato alla Fratelli Pozzo per Noel Arnaud, La langue verte et la cuite, edito da Jean-Jacques Pauvert. Il libro fu costruito sui tavoli del montaggio, dove si decorarono le lingue, si scelsero e ritagliarono le immagini; non fu preparata una vera e propria maquette, ma si procedette n una mise en page a più mani. Jorn lavorò una settimana. Fino a sera inoltrata dormendo su un lettino di fortuna in infermeria; capiva di avere a disposizione un parco macchine speciale e mi fu sempre grato di avergli dato l’opportunità di dipingere con la tipografia Jorn amava molto la tipografia, l’odore degli inchiostri e dei piombi, dei cliche e dei fani; gli piaceva lavorare direttamente sulle lastre e si cimentava a realizzare opere sperimentali di grafica di grande formato su cui interveniva personalmente di inchiostri e caratteri tipografici. Proprio per la Fratelli Pozzo realizzò la litografia più grande della sua carriera (200 x 140 cm). Jorn amava la parte più creativa e, come se si fosse trovato nel proprio atelier, riuscivamo a dar vita a un lavoro collettivo con i cromisti e le altre maestranze. Ho realizzato con lui due volumi, il primo nel 1970, Jorn a Cuba, testimonianza del suo lavoro svolto a L’Avana su invito del governo cubano nel 1968 che risponde, da un lato, all’idea dell’impegno sociale dell’autore e, dall’altro, ai legami internazionali anche con altri artisti, per esempio Wifredo Lam. Il secondo, Le jardin d’Albisola, è uscito postumo nel 1974 e documenta le ceramiche che l‘artista danese realizzava appunto in questo luogo della Liguria, ora diventato Museo.” Testimonianza di Ezio Gribaudo. Si ringrazia la dott.ssa CATERINA FOSSATI 

Somehow the experience of the Situationist international, born in 1957 in Cosio d’Arroscia, was born from a short, intense and farsighted artistic adventure known as C0.Br.A. The group owes its name to the cities of origin of the founders, Copenhagen, Brussels, Amsterdam. Asger Jorn, Pierre Alechinsky, Karel Appel and others including Corneille and Serge Vardercam. Despite the short duration (from 1948 to 1951, with only two active exhibitions) that way of making art, so “brutal”, immediate and instinctive changed the very way of understanding painting and the same idea of ​​artistic work. The radical critique of the market went so far as to change the perception of the relationship between work, artist and collector, and laid the foundations for arriving a few years later at the provocative industrial painting sold by the meter of the “Situationist” Pinot Galizio. Actually the Artists of the Co.Br.A. they were experimenters of new techniques, making the serial reproduction of a work of art an experience not only linked to the need to make access to art cheaper (and therefore more “democratic”). The works were “designed” to be reproduced with particular printing techniques, often made in fact unique with original and specific interventions on the various copies, and the printers were involved in the artistic creation. In this perspective, the experience of the Pozzo Brothers of Turin and their Art Editions is particularly significant, directed not by chance by Ezio Gribaudo, an artist who later became President Emeritus of the Accademia Albertina in Turin. Asger Jorn’s Proof of Artist from 1970, which we are exhibiting on this occasion, comes from this experience. Also the other works on display. Karel Appel’s Artist’s Proof, iconic in the aesthetic language of that movement, is printed on parchment, while Pierre Alechinsky’s Artist’s Proof is made with different techniques, from etching to photography. Certainly there were also artists who made a more “aesthetic” and consequently commercial use of the seriality of the work of art, as evidenced by Corneille’s lithograph, albeit made in a small edition.

“ Asger Jorn: painting with typography”

The testimony of Ezio Gribaudo

“ I met Asger Jorn in the early sixties, during the preparation of a volume that I printed at Fratelli Pozzo for Noel Arnaud, La langue verte et la cuite, edited by Jean-Jacques Pauvert. The book was built on the editing tables, where the languages ​​were decorated, the images were chosen and cut out; a real maquette was not prepared, but a multi-handed mise en page proceeded. Jorn worked for a week. Until late in the evening sleeping on a makeshift cot in the infirmary; he understood that he had a special fleet of machines at his disposal and he was always grateful to me for having given him the opportunity to paint with typography. Jorn was very fond of typography, the smell of inks and leads, clichés and fans; he liked to work directly on the plates and tried his hand at creating experimental works of large format graphics on which he personally intervened with inks and typographic characters. Precisely for Fratelli Pozzo he created the largest lithograph of his career (200 x 140 cm). Jorn loved the most creative part and, as if he were in his own atelier, we were able to create a collective work with the chromatists and other workers. I wrote two volumes with him, the first in 1970, Jorn in Cuba, evidence of his work carried out in Havana at the invitation of the Cuban government in 1968 which responds, on the one hand, to the idea of ​​the author’s social commitment and , on the other hand, to international ties also with other artists, for example Wifredo Lam. The second, Le jardin d’Albisola, was published posthumously in 1974 and documents the ceramics that the Danish artist made precisely in this place in Liguria, which has now become a museum.”

Testimony of Ezio Gribaudo.

Thanks to Dr. CATERINA FOSSATI

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LA CASA DEGLI ARTISTI di Cosio d’Arroscia 1/ Rainer Kriester

Le SituAzioni Tribaliglobali trovano casa nel paese dove nacque il Situazionismo. / Tribal global Situ Actions find a home in the place where Situationism was born in 1957.

https://flic.kr/s/aHBqjALDK5

DANKE RAINER!

Onorare  la memoria di un grande Artista non è solo doveroso, ma utile. Si onora la memoria di qualcuno che ha lasciato  una traccia,  a disposizione di chi resta nel faticoso cammino della vita: una lezione che insegna a meglio vedere un percorso.  

Nel caso di un Artista questa verità è ancora più tangibile perché  l’arte parla un linguaggio universalmente semplice , chiaro in ogni tempo e in ogni luogo: il linguaggio della bellezza.

È un linguaggio che si comprende nella dimensione delle emozioni più che in quella delle parole, un linguaggio che non descrive ma evoca.

Capita talvolta che accada anche qualcosa di più , che il passare del tempo sveli una profondità ancora maggiore nella traccia rimasta e questo è certamente il caso di Rainer Kriester. 

Con il passare del tempo comprendiamo sempre più e sempre meglio il valore archetipico del suo linguaggio, quel mescolare segni, cifre, forme, materia in modo insieme così misterioso e così familiare , come a ricordarci che siamo fatti per comprendere la bellezza dei numeri e il rigore scientifico delle forme , dei segni e della materia, come a ricordarci che ciò accade perché non c’è frattura tra cervello e cuore.

Nello Sala Permanente dedicata a Rainer Kriester presso la Casa degli Artisti di Cosio d’Arroscia, Paese Situazionista, abbiamo scelto di esporre la formidabile quotidianità di Rainer: una parte delle preziosissime chine che il Maestro faceva praticamente ogni igiorno, per fermare pensieri da trasformare in opere d’arte. Sono potenti, monumentali e solide come le sue sculture. Articolati e profondi nel continuo rimando ad un antico alfabeto metaforico che sembra poter svelare i segreti più arcani dell’universo, queste piccole chine  anticipano la  “leggerezza”  delle sculture in pietra e bronzo, presenze quasi intangibili per l’armonia tra forme, materia e segno. Grazie alla disponibilità di Jean Marc Beyer  , custode attento della memoria di Rainer e Christiane, possiamo vedere quelle opere in un ambiente arredato con i mobili originali provenienti dalla abitazione Vendonese del Maestro e della sua indimenticata compagna di una vita, Christiane. 

Non c’è da stupirsi : lo splendore del Vero rompe gli schemi di una osservazione superficiale e obbliga ad un altro sguardo , ad un’altra profondità di campo dove il metro di misura si cerca dentro di se e non fuori.

Abbiamo scelto – in omaggio alla preveggenza visionaria di uno dei pochi Artisti del Novecento  che abbia colto , testimoniato e tradotto nel linguaggio del nostro tempo il messaggio profondo delle Arti Primarie – di esporre in questa Sala una prestigiosa raccolta di maschera a elmo, provenienti da diverse culture Africane. Di fatto sono  teste, e le loro forme furono studiate con attenzione da Kriester _ come testimonia una nutrita collezione di chine – , fino a diventare parte fondamentale del linguaggio  estetico del grande Maestro Tedesco. L’insieme di opere così  diverse nel tempo e nei luoghi ci consente di vedere la segreta armonia che nasce dal dialogo tra opere d’arte apparentemente così distanti tra loro per origine e materia. L’arte si manifesta così come  un forte richiamo alla  fratellanza universale di ogni essere umano: non è neutrale, è  maestra di Vita e ci ricorda nei momenti difficili come quello che stiamo vivendo che è nell’Altro che possiamo trovare il meglio di noi stessi. Danke,  Rainer. 

Honoring the memory of a great Artist is not only a duty, but a useful one. The memory of someone who has left a trace is honored, available to those who remain on the tiring journey of life: a lesson that teaches us to better see a path.
In the case of an Artist this truth is even more tangible because art speaks a universally simple language, clear in every time and place: the language of beauty.
It is a language that is understood in the dimension of emotions rather than in words, a language that does not describe but evokes.

Sometimes something more also happens, that the passage of time reveals an even greater depth in the remaining track and this is certainly the case with Rainer Kriester.
Over time we understand more and more and better the archetypal value of his language, that mix of signs, figures, shapes, matter in a way that is both so mysterious and so familiar, as if to remind us that we are made to understand the beauty of numbers and the scientific rigor of forms, signs and matter, as if to remind us that this happens because there is no break between the brain and the heart.In the Permanent Room dedicated to Rainer Kriester at the Casa degli Artisti in Cosio d'Arroscia, a Situationist town, we have chosen to exhibit the formidable everyday life of Rainer: a part of the very precious inks that the Maestro made practically every day, to freeze thoughts to be transformed in works of art. They are powerful, monumental and solid like his sculptures. Articulate and profound in the continuous reference to an ancient metaphorical alphabet that seems to be able to reveal the most arcane secrets of the universe, these small inks anticipate the "lightness" of sculptures in stone and bronze, almost intangible presences for the harmony between shapes, materials and sign. Thanks to the availability of Jean Marc Beyer, attentive guardian of the memory of Rainer and Christiane, we can see those works in an environment furnished with the original furniture from the Vendonese home of the Master and his unforgettable lifelong companion, Christiane.
No wonder: the splendor of the True breaks the mold of a superficial observation and forces us to take another look, to another depth of field where the yardstick is sought within and not outside.

We have chosen - in homage to the visionary foresight of one of the few 20th century artists who have grasped, witnessed and translated the profound message of the Primary Arts into the language of our time - to exhibit in this Room a prestigious collection of helmet masks, from different African cultures. In fact they are heads, and their shapes were carefully studied by Kriester _ as evidenced by a large collection of inks - until they became a fundamental part of the aesthetic language of the great German Master. The set of works so different in time and place allows us to see the secret harmony that arises from the dialogue between works of art that are apparently so distant from each other in origin and material. Art thus manifests itself as a strong call to the universal brotherhood of every human being: it is not neutral, it is a teacher of Life and reminds us in difficult moments such as the one we are experiencing that it is in the Other that we can find the best of ourselves . Danke, Rainer.



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Un’archetipo suggestivo: Chi Wara.

Maschera ad elmo Chiwara/ Sogolikun. Cultura Bamana, Mali.

Legno. Cm 46 Provenienza collezione privata, Spagna, Native Auction.

( Il nome Sogonikun è dato a un tipo di cimiero e figura mascherata che apparve a Wasolon e fu adottato nelle regioni vicine. ). Per un esemplare molto simile si veda Sotheby’s, NYC 7557 pag 23 figura 17

La vita sociale, economica e spirituale dei Bamana, nel sud-ovest del Mali, è governata da sei società di iniziazione conosciute collettivamente come dyow (sing. dyo). Le sei società sono n’domo, komo, nama, kono, chi wara e kore. Un Bamana deve passare rispettivamente attraverso tutte e sei i livelli di iniziazione per essere considerato un uomo completo con una visione completa degli insegnamenti e delle tradizioni ancestrali.

Ogni società di iniziazione ha il proprio tipo di maschera associato (per lo più zoomorfa, cioè basata su forme animali) tra cui i copricapi agricoli di antilopi chi wara (chiamato anche ci wara / tyi wara che significa ‘animale selvatico al lavoro’) dyo. L’obiettivo principale del chiwara dyo è quello di educare gli uomini alle migliori pratiche agricole e di onorare Chi Wara, l’eroe culturale dei Bamana, che ha creato le conoscenze relative alla coltivazione della terra ai Bamana. I membri del chi wara dyo si esibiscono in danze mascherate non solo per celebrare il loro mito, Chi Wara, ma anche per garantire la fertilità dei loro campi e pregare gli dei per un buon raccolto. Le celebrazioni vengono utilizzate anche per riconoscere pubblicamente l’esperienza degli agricoltori di successo.

Le antilopi scolpite sono conosciute come Chiwara o  come “Tijwara”“la bestia che lavora” (“tij”: lavoro, “wara”: animale selvatico). Ricordano un essere mitico, metà uomo e metà animale, che in un passato leggendario insegnò all’uomo come coltivare la terra. Ma quando il grano abbondava, gli uomini cominciarono a sprecarlo. “Tijwara” si seppellì nel terreno e gli uomini, dopo averlo perso, scolpirono una scultura in sua memoria. “Tijwara” appare in coppie, una figura maschile ed una  femminile, scolpite in legno e fissate ad un copricapo di vimini. I ballerini, curvi  su bastoni di legno a simulare le zampe anteriori dell’animale, erano  erano completamente nascosti da mantelli di fibre vegetali. Il significato centrale di “tijwara” originariamente era quello di incoraggiare la coltivazione collettiva della terra con la zappa. Di conseguenza si esibivano in tre occasioni: sarchiatura competitiva, danze di gioia dopo il lavoro collettivo sul campo e celebrazione annuale della società di iniziazione. 

The name Sogonikun is given to a type of crest and masked figure that appeared in Wasolon and was adopted in neighboring regions. Like the Ci-wara, these crests are characteristic of a village association (ton). They appeared in the village or in the fields during the competitions in which the peasants were engaged. Groups of itinerant dancers could go from village to village (see P. Imperato, 1981). (see Bambara, Rietberg Museum 2002 page 221 figure 207

The social, economic and spiritual lives of Bamana men, in Southwestern Mali, are governed by six initiation societies collectively known as dyow (sing. dyo). The six societies are n’domo, komo, nama, kono, chi wara and kore. A Bamana man must pass through all six initiation societies respectively to be considered a rounded man with full insight into ancestral teachings and traditions.

Each initiation society has its own associated mask type (mostly zoomorphic, i.e. based on animal forms) including the chi wara (also called ci wara / tyi wara meaning ‘labouring wild animal’) dyo’s antelope agriculture headdresses. The main aim of the chi wara dyo is to educate men on farming best practices and to honour Chi Wara, the cultural hero of the Bamana, who thought the skills of land cultivation to the Bamana. Members of the chi wara dyo perform dances with masquerades to not only celebrate their hero, Chi Wara, but to also ensure the fertility of their fields and to pray to the gods for a good harvest. The celebrations are also used to publicly acknowledge the expertise of successful farmers.

NOTE: The circumcised youth ton associations and the voluntary gonzon society also make use of headdresses similar to chi wara called n’gonzon koun.

Fonte Imodara.com 

The carved antelopes are known as Chiwara or “tijwara” – “the beast who labors” (“tij”: work, “wara”: wild animal). They recall a fabulous being, half man, half animal, who in legendary past thaught man how to cultivate the earth. But as grain grew abundant, men began to waste it. “Tijwara”buried himself in the ground, and men, having lost him, carved a sculpture in his memory.

“Tijwara” appear in male and female pairs on basketry caps. The dancers were bent over forelegs of wooden sticks and were completely hidden by cloaks of plant fibre.

The central meaning of “tijwara” originally was to encourage the collective farming of land with the hoe. Accordingly they performed on three occasions: competitive weeding, dances of joy after the collective field work was done and at the annual celebration of the initiation society.

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Bwoom, a royal Kuba Mask. Una Maschera reale Kuba

Maschera Bwoom, Cultura Kuba, R.d.Congo, metà del XX secolo legno, caori, perline, pelle, cm 34 prov. Christie’s 6/03/1990 Arte Primitivo Barcellona

Questa maschera ad elmo, chiamata Bwoom, danza durante le cerimonie di iniziazione maschile (nkaan); esse hanno la funzione di insegnare agli iniziati la storia, i valori culturali di Kuba e di onorare la memoria di Woot (il padre fondatore e antenato di tutti i re Kuba). Le opinioni su ciò che rappresenta Bwoom sono diverse : alcune fonti indicano che la maschera rappresenta un principe (fratello minore del re), afflitto da un problema neurologico che provocava il gonfiore della testa, altre che sia l’immagine di uno degli abitanti originari della regione, i Pigmei Twa, altre ancora che bwoom sia stato creato per il re regnante dell’epoca, Miko mi-Mbul, creata in alternativa alla maschera reale mwaash ambooy, per essere indossata dal re per curare la sua malattia mentale (da qui la sua descrizione locale “una persona di basso rango poco degna di essere incarnata dal re”). Bwoom è universalmente ritenuto uno spirito della natura (ngesh; pl. mingesh) che appare agli iniziati nkaan ed aiuta a potenziare l’influenza positiva degli spiriti della natura sulla vita dei Kuba.

This helmeted mask, called Bwoom, dances during male initiation ceremonies (nkaan); they have the function of teaching initiates the history and cultural values ​​of the Kuba people and honoring the memory of Woot (the founding father and ancestor of all Kuba kings). There are different opinions on what Bwoom represents: some sources indicate that the mask represents a prince (younger brother of the king), afflicted by a neurological problem that caused the head to swell, others that it is the image of one of the original inhabitants of the region, the Twa Pygmies, others that Bwoom was created for the reigning king of the time, Miko mi-Mbul, created as an alternative to the royal mask Mwaash ambooy, to be worn by the king to cure his mental illness (hence the his local description “a person of low rank hardly worthy to be embodied by the king”). Bwoom is universally believed to be a nature spirit (ngesh; pl. mingesh) who appears to Nkaan initiates and helps to enhance the positive influence of nature spirits on the lives of the Kuba.

Giuliano Arnaldi, Onzo giugno 2023

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Ngontang helmet mask,a proposito di un Casco Fang 

Maschera ad elmo Ngontang, Cultura Fang . Metà del XX secolo. Legno, caolino, pigmenti naturali h. cm 27. 

Prov. Fernandez Leventhal- NYC – e Arte Primitivo-  Barcellona –  

Le maschere  provenienti da quello che oggi chiamiamo Gabon, e che come sempre accade in Africa è invece una terra che ospita popoli organizzati e definiti ben oltre i confini del colonialismo occidentale , sono tra le più ricercate ( e falsificate) . Ed i popoli Punu e Fang sono tra quelli che maggiormente hanno prodotto  questo tipo di manufatti. Le maschere sono caratterizzate da lineamenti delicati, quasi eterei, enfatizzati dal colore bianco del caolino, e danzano in circostanze particolari. La nostra  maschera ad elmo, proveniente dalle Gallerie Fernandez Leventhal  di  NYC e Arte Primitivo di Barcellona, ha danzato durante la cerimonia nota come Ngontang. celebrata a quanto risulta dalla comunità Fang nell’attuale Gabon settentrionale, Guinea equatoriale e Camerun meridionale fino alla metà del XX secolo . L’etimologia di ngontang (o nlo-ñgontang) sembra essere una contrazione del termine Fang nlo ñgon ntañga: testa (nlo) della fanciulla o figlia (ngon/ñgon) europea (ntañga; anche ntanghe/ntangha/ntaña) . Sulla base di questo nome e di attributi formali, si pensa che questa tipologia sia emersa  in relazione alla presenza sempre più vistosa di commercianti, missionari e personale coloniale occidentali il cui numero crescente in Gabon e nelle aree circostanti ha profondamente cambiato  le culture locali tra la metà e la fine del XIX secolo secolo. E’ suggestiva la teoria riportata da Joshua I. Cohen, 2016 ( https://www.metmuseum.org/art/collection/search/314285 ) secondo cui “ Durante e prima di questo primo periodo coloniale, si dice che i Fang ed altri popoli equatoriali e dell’Africa centrale abbiano visto connessioni  – o abbiamo addirittura confuso – tra occidentali ed esseri soprannaturali. L’aspetto fisico insolito, le nuove tecnologie e la presenza violentemente dirompente di europei e americani nella regione hanno senza dubbio contribuito a questa credenza, così come l’associazione  tra gli occidentali e l’acqua ( ad esempio dovuta dal  fatto che  essi arrivavano dall’altra parte dell’oceano, territorio ignoto alle popolazioni locali ) così come  il colore bianco della pelle, colore associato nella tradizione locale con gli spiriti e la terra dei morti. I lineamenti delicati e le carnagioni chiare dei volti delle maschere ngontang suggeriscono quindi qualità sia femminili che ultraterrene.” Penso sia certamente una prova del valore narrativo delle manifestazioni creative africane, sempre tese a comprendere il nuovo, tradurlo nel proprio linguaggio estetico ed interiorizzarlo mediante quell’alfabeto fatto di segno, colore, materia che sono le maschere ed il loro uso dinamico. Si spiega così ad esempio anche la presenza nella iconografia  Baulè della figura dei Coloni, ed in genere di elementi tipicamente occidentali. Per quei popoli, ed in genere per le culture extraeuropee, l’arte è indagine della realtà quotidiane e di stati di coscienza, con il fine di governare la complessità della vita. Tornando al nostro casco Fang,  sempre secondo Cohen “ la presenza di più volti ( nel nostro caso quattro) può servire per indicare poteri di percezione accresciuti nel regno degli spiriti e, se integrati in un insieme di costumi, per impressionare il pubblico…( inoltre  ) ..una didascalia del 1917 pubblicata in riferimento a un’altra maschera ngontang nella collezione del Met (1979.206.24) nota che la maschera ballava “nelle notti di luna piena”. Pur non essendo certo, forse questo riflette l’ associazione fatta dai  Fang tra la  femminilità ed i cicli della luna: i motivi lunari spesso adornano i volti delle maschere ngontang”.

Ngontang helmet mask, Fang Culture. Mid 20th century.

Wood, kaolin, natural pigments h. 27cm.

Prov. Fernandez Leventhal- NYC – and Arte Primitivo- Barcelona –

The masks from what we now call Gabon, and which as always happens in Africa is instead a land that hosts organized and defined peoples far beyond the borders of western colonialism, are among the most sought after (and falsified). And the Punu and Fang peoples are among those who mostly produced this type of artefacts. The masks are characterized by delicate, almost ethereal features, emphasized by the white color of the kaolin, and dance in particular circumstances. Our helmet mask, from the Fernandez Leventhal Galleries in NYC and Arte Primitivo in Barcelona, danced during the ceremony known as Ngontang. reportedly celebrated by the Fang community in what is now northern Gabon, Equatorial Guinea and southern Cameroon until the mid-20th century. The etymology of ngontang (or nlo-ñgontang) seems to be a contraction of the term Fang nlo ñgon ntañga: head (nlo) of the European maiden or daughter (ngon/ñgon) (ntañga; also ntanghe/ntangha/ntaña) . Based on this name and formal attributes, this typology is thought to have emerged in connection with the increasingly conspicuous presence of Western traders, missionaries, and colonial personnel whose growing numbers in Gabon and surrounding areas profoundly changed local cultures among the mid to late 19th century. The theory reported by Joshua I. Cohen, 2016 ( https://www.metmuseum.org/art/collection/search/314285  ) according to which ” During and before this first colonial period, it is said that the Fang and other Equatorial and Central African peoples have seen connections – or have even confused – between Westerners and supernatural beings. The unusual physical appearance, new technologies and the violently disruptive presence of Europeans and Americans in the region have undoubtedly contributed to this belief, as well as the association between Westerners and water (for example due to the fact that they came from other side of the ocean, a territory unknown to the local populations) as well as the white color of the skin, a color associated in local tradition with spirits and the land of the dead. The delicate features and pale complexions of the faces of the ngontang masks thus suggest both feminine and otherworldly qualities.” I think it is certainly proof of the narrative value of African creative manifestations, always aimed at understanding the new, translating it into their own aesthetic language and internalizing it through that alphabet made up of signs, colours, materials which are masks and their dynamic use. This also explains, for example, the presence in the Baulè iconography of the figure of the Coloni, and in general of typically Western elements. For those peoples, and in general for non-European cultures, art is an investigation of everyday realities and states of consciousness, with the aim of governing the complexity of life. Going back to our Fang helmet, again according to Cohen “the presence of several faces (in our case four) can serve to indicate increased powers of perception in the realm of spirits and, if integrated into a set of costumes, to impress the public… (moreover ) ..a 1917 caption published in reference to another ngontang mask in the Met’s collection (1979.206.24) notes that the mask danced “on full moon nights”. While not certain, perhaps this reflects the association made by the Fang between femininity and the cycles of the moon: lunar motifs often adorn the faces of ngontang masks

Giuliano Arnaldi, Onzo 18 maggio 2023

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focus/cucchiaio dan/dan spoon

Un’icona: wakemia

E’ un’oggetto diventato iconico. le forme ardite ma perfette nella loro armonia misteriosa sprigionano una potenza archetipale. Appare istintivamente normale pensare ad una figura femminile, all’essenza della della figura femminile. Le gambe, il sesso pronunciato, l’insieme della parte centrale sono esplicite, ma avere concentrato nella parte alta, dove nella realtà si trova la testa, una grande forma concava non è solo funzionale all’uso per cui questo oggetto è pensato, ma racconta con una immagine la qualità sapienziale femminile: raccogliere la vita, custodirla, nutrirla. In questo semplice oggetto d’uso c’è l’essenza dell’alfabeto metaforico usato dalle culture Primarie, cosi semplice nell’evocare narrazioni sugli aspetti più significativi dell’esperienza umana.

E’ tra gli oggetti più ricercati ( e costosi ) nel mercato delle Arti Primarie. I più blasonati fanno nelle aste cifre a cinque zeri. Ed inesorabilmente è tra i più falsificati, fatto che porta chi acquista i pedigree invece della qualità a non prendere in considerazione quasi mai gli Wakemia senza provenienza certa, anche perché non è semplice distinguere un’opera originale da una copia ben fatta.

In questo caso l’oggetto dichiara la sua autenticità sia grazie al suo rigore formale, sia alla patina d’uso; è evidente che l’usura delle scarificazioni riprodotte nella parte centrale non può essere stata fabbricata ad arte.

E’ doverosa qualche informazione specifica : questo cucchiaio wakemia ( 0 wunkirmian ) è espressione della cultura del popolo Dan ( Costa d’Avorio ), è realizzato in legno duro con una patina molto scura, e misura 49,8 centimetri di altezza. E’ stato raccolto in situ oltre vent’anni fa ma ragionevolmente risale alla metà del secolo scorso; venne messo al riparo dai saccheggi e dal vandalismo legati alla lunga serie di guerre che hanno dilaniato quelle terre ed è stato gelosamente custodito per lunghi anni ad Abidjan da un noto antiquario locale e poi dai suoi nipoti.

” I grandi cucchiai cerimoniali sono scolpiti per onorare una specifica donna Dan di che si è distinta nella comunità di origine per generosità e ospitalità. Nelle ricorrenze importanti danza con il cucchiaio e dirige la distribuzione del riso ai convenuti. Divenuta anziana e riconosciuta come autorevole, passa il cucchiaio e il prestigio che ne deriva a colei che ritiene essere la più adeguata a succederle. I cucchiai sono conosciuti con molti nomi, tra cui wakemia o wunkirmian, che si traduce approssimativamente come “cucchiaio associato alle feste”. I cucchiai hanno dimensioni variabili da un piede a due piedi e hanno una o (raramente) due palette concave parallele. Il manico del cucchiaio è sempre decorato e spesso è legato alla forma umana e spesso presenta un paio di gambe come questo esemplare.
Tra i Dan, la proprietaria del cucchiaio è chiamata wa ke de, “donne che recitano alle feste”. È un titolo di grande distinzione, e viene viene dato alla donna più ospitale del paese. Con l’onore, tuttavia, viene la responsabilità di preparare la grande festa che accompagna le cerimonie mascherate. Dovendo accogliere e celebrare adeguatamente gli spiriti mascherati, le wa ke devono avere eccellenti capacità agricole, talento organizzativo e abilità culinarie i.
Quando una donna è stata scelta come padrona di casa principale per un simile evento, sfila per la città portando il cucchiaio grande come emblema del suo status. Il giorno della festa balla per il villaggio vestita da uomo perché “solo gli uomini sono presi sul serio”. Porta con sé un wunkirmian e mostra una ciotola piena di piccole monete o riso. Con l’aiuto dei suoi numerosi assistenti (di solito parenti o amiche), distribuisce cereali e monete ai bambini della comunità mentre balla e canta una speciale canzone con voce stridula. Il ventre profondo del cucchiaio da cui viene dispensata questa generosità diventa il corpo simbolico o grembo della figura femminile. L’evento crea una profonda analogia visiva che onora la padrona di casa, e le donne in generale, come fonte di cibo e di vita.
Oltre ad essere emblemi d’onore, i wunkirmian hanno anche un potere spirituale. Sono il principale collegamento di una donna Dan con il potere del mondo degli spiriti e un simbolo di quella connessione. Tra i Dan, ai wunkirmian è stato assegnato un ruolo tra le donne paragonabile a quello che le maschere svolgono tra gli uomini. In molti casi, i wunkirmian sono presenti nelle stesse cerimonie con maschere, lanciando riso davanti a loro come benedizione mentre procedono attraverso il villaggio. (Fonte: Metropolitan Museum of Art)

It is an object that has become iconic. the bold but perfect shapes in their mysterious harmony release an archetypal power. It seems instinctively normal to think of a female figure, of the essence of the female figure. The legs, the pronounced sex, the whole of the central part are explicit, but having concentrated in the upper part, where the head is actually located, a large concave shape is not only functional to the use for which this object was designed, but it tells with an image the female sapiential quality: gathering life, guarding it, nourishing it. In this simple object of use there is the essence of the metaphorical alphabet used by Primary cultures, so simple in evoking narratives on the most significant aspects of human experience.

It is among the most sought after (and expensive) objects in the Primary Arts market. The most famous ones make five-figure figures in auctions. And inexorably it is among the most falsified, a fact that leads those who buy pedigrees instead of quality to almost never take into consideration Wakemias without certain provenance, also because it is not easy to distinguish an original work from a well-made copy.

In this case the object declares its authenticity both thanks to its formal rigor and the patina of use; it is evident that the wear of the scarifications reproduced in the central part could not have been artfully manufactured.

Some specific information is required: this wakemia spoon ( 0 wunkirmian ) is an expression of the culture of the Dan people ( Ivory Coast ), is made of hard wood with a very dark patina, and measures 49.8 cm in height. It was collected in situ over twenty years ago but reasonably dates back to the middle of the last century; it was sheltered from looting and vandalism linked to the long series of wars that tore those lands apart and was jealously guarded for many years in Abidjan by a well-known local antique dealer and then by his nephews.



"Large ceremonial ladles are carved to honor a particular Dan woman from each village quarter who has distinguished herself among her fellow women by generosity and hospitality. At special feasts, she dances with the ladle and directs the distribution of rice to those assembled. An elderly honouree passes the ladle and the honour on to the one she sees fit as a successor.
Artists in Dan communities of the Guinea coast have mastered the art of carving impressive, large wooden spoons that are virtuos works of sculpture. The spoons are known by many names, including wake mia or wunkirmian, which roughly translates as “spoon associated with feasts.” The spoons range in size from a foot to two feet and have one or (rarely) two parallel bowls. The handle of the spoon is always decorated and often is related to the human form and often feature a pair of legs like this example.
Among the Dan, the owner of the spoon is called wa ke de, “at feasts acting woman.” It is a title of great distinction that is given to the most hospitable woman of the village. With the honor, however, comes responsibility—the wa ke de must prepare the large feast that accompanies masquerade ceremonies. The excellent farming abilities, organizational talents, and culinary skills of the wa ke de are called upon to properly welcome and celebrate the masquerade spirits.
When a woman has been selected as the main hostess of such a feast, she parades through town carrying the large spoon as an emblem of her status. On the day of the feast, she dances around the village dressed in men’s clothes because “only men are taken seriously.” She carries with her a wunkirmian and displays a bowl filled with small coins or rice. With help from her numerous assistants (usually female relatives or friends), she distributes grains and coins to the children of the community while dancing and singing her special shrill song. The deep belly of the spoon from which this bounty is dispensed becomes the symbolic body or womb of the female figure. The event creates a profound visual analogy that honors the hostess, and women in general, as a source of food and life.
In addition to being emblems of honor, wunkirmian also have spiritual power. They are a Dan woman’s chief liaison with the power of the spirit world and a symbol of that connection. Among the Dan, the wunkirmian have been assigned a role among women that is comparable to that which masks serve among the men. In many instances, wunkirmian are featured in the same ceremonies with masks, tossing rice in front of them as a blessing while they proceed through the village.(Source: Metropolitan Museum of Art)

Giuliano Arnaldi, Onzo 26 giugno 2023

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MUSEO ( [dal lat. Musēum, gr. Μουσεῖον der. di Μοῦσα «musa2» (propr. «luogo sacro alle Muse») perché organizzare ed esporre opere d’arte è in qualche modo una espressione di sacralità: l’arte parla al Profondo.

NOMADE perché le opere sono destinate ad essere esposte ovunque possano servire per creare dialogo tra le persone e le loro culture

di ARTI PRIMARIE perché le opere sono organizzate senza soluzione di continuità nel tempo e nei luoghi. Sono state scelte per la loro evidenza archetipica, e sono destinate ad evocare stati di coscienza che appartengono a ciascuno di noi, a chi ci ha preceduto, a chi verrà dopo. Perché parlano di vita, di morte, di coraggio, di paura, di dolore, di gioia, di amore, di odio..

MUSEUM ( [from the lat. Musēum, gr. Μουσεῖον der. of Μοῦσα «musa2» (propr. «place sacred to the Muses») because organizing and exhibiting works of art is in some way an expression of sacredness: art speaks to the Deep.

NOMAD because the works are intended to be exhibited wherever they can be used to create dialogue between people and their cultures

of PRIMARY ARTS because the works are organized without solution of continuity in time and places. They have been chosen for their archetypal evidence, and are intended to evoke states of consciousness that belong to each of us, to those who preceded us, to those who will come after, because they speak of life, of death, of courage, of fear, of pain, of joy, of love, of hate..