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” Prendete l’elmo…/ Take the helmet…”

igbo izzi
le opere esposte

«Egli si è rivestito di giustizia come di una corazza, e sul suo capo ha posto l’elmo della salvezza» (Is 59,17)

L’elmo  è insieme oggetto e metafora, e viene dalla profondità del tempo. Quello in metallo, destinato a proteggere fisicamente la testa, risale al tempo dei Sumeri ( III millennio a.C.); prima era in cuoio, o stoffa. Aegishjalmur, anche conosciuto come Elmo dell’Orrore o Elmo dell’Impavido, è l’antico simbolo a cui i Vichinghi attribuivano il potere di fornire protezione e infondere paura nei cuori dei nemici. In Italia “l’Elmo di Scipio” è metafora centrale del nostro Inno Nazionale. Noto anche come elmo di Annibale,  appartenne  al celebre comandante Publio Cornelio Scipione; fu preda di guerra del generale cartaginese Annibale nel periodo delle guerre puniche, diventando l’emblema della grande sfida tra Roma e Cartagine e finendo per rappresentare il coraggio e la forza dei guerrieri di entrambe le fazioni. L’elmo appare anche in numerose leggende, storie e racconti popolari marittimi, solitamente come uno strumento che determina il destino delle navi e dei loro equipaggi. Queste storie spesso si concentrano sul tema della lotta umana contro le forze della natura, e l’elmo rappresenta la capacità umana di influenzare il proprio destino nonostante gli ostacoli esterni. (  https://symbolopedia.com/it/helm-symbolism-meaning/ ) . 

Il valore simbolico di questo tipo di oggetto ragionevolmente deriva dal fatto che ripara la parte più fragile, misteriosa e vitale del corpo umano: la testa, il luogo fisico che ospita la parte immateriale dell’essere umano, il pensiero. Si può dire che è l’essenza identitaria di una persona, e da qui nasce  la necessità di proteggerla ed insieme di riconoscerne l’importanza vitale. L’elmo è “oltre” la maschera – che copre solo il viso – perchè altera e protegge anche le parti  meno visibili e misteriose della natura umana, tra cui il  cervello. Nella tradizione biblica la valenza metaforica dell’elmo indica la stessa direzione, facendo parte delle armi di difesa di cui Dio riveste i suoi fedeli: ; Egli riveste i suoi fedeli con elmo, scudo, corazza e spada; lo scudo protegge il cuore e la corazza il corpo ma è l’elmo che  protegge la testa, da cui provengono i pensieri. La metafora  delle armi come simboli della protezione di cui Dio riveste il credente si chiarisce e rinnova nell’Apostolo Paolo; «Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo e spegnere le frecce infuocate del Maligno» (cfr. Ef 6,11-17). Agli Efesini raccomanda di «Prendere anche l’elmo della salvezza» (cfr. Ef 6,17a). Il verbo greco significa anche  «accettare l’elmo della salvezza» implicando significativamente la necessità di accettare l’azione salvifica di Dio nell’ambito di un rapporto attivo tra Creatura e Creatore. L’elmo diventa quindi metafora di speranza, e non solo di difesa.  Sempre Paolo, nella lettera ai Tessalonicesi, afferma : «Noi invece, che apparteniamo al giorno, siamo sobri, vestiti con la corazza della fede e della carità, avendo come elmo la speranza della salvezza» (cfr. 1Ts 5,8).

La storia più approfondita dell’elmo si può trovare qui  ( https://www.treccani.it/enciclopedia/elmo/# ), ed è interessante notare che mentre i caschi militari contemporanei sono semplici dispositivi difensivi, fino all’inizio del secolo scorso essi “parlavano”, nel senso che oltre a svolgere la necessaria funzione protettiva erano arricchiti di forme, materiali o colori simbolici; l’esempio più eclatante  è l’elmo Kabuto, in uso ai Samurai Giapponesi di alto rango ( https://temizen.zenworld.eu/paginezen/approfondimenti/kabuto-funzioni-e-simboli-dell-elmo-giapponese ). Anche una semplice e sommaria ricostruzione come questa consente di cogliere la dimensione archetipale che può assumere un semplice oggetto, se posto in una logica speculativa, ma è il porsi davanti alla declinazione dell’oggetto “elmo” che fanno le culture extraeuropee – e particolarmente quelle africane – a  rendere evidente la potenza narrativa delle immagini e delle loro manifestazioni materiali. 

Le maschere a elmo che abbiamo raccolto per questa esposizione sono profondamente differenti tra loro nel linguaggio estetico. Si va dalla astrazione essenziale della maschera ad elmo  Mumuye alla potenza realistica dei caschi Bundu, ma nulla è lasciato al caso; ogni forma, colore, segno, la stessa materia usata, serve ad evocare uno stato di coscienza ed a comunicarlo, riannoda il filo perenne tra il reale e l’immaginato, l’immanente e il trascendente. Il dialogo con il nostro tempo ed il nostro mondo è affidato alla presenza di un casco usato nel gioco del Football  Americano e precisamente dai Pirates 1984: Hard but fair,  questa disciplina sportiva ha il pregio di subliminale gli istinti aggressivi indirizzandoli in un sistema di valori positivi.

Le “Teste” di Rainer Kriester sono invece la formidabile traduzione nel linguaggio dell’arte moderna di quel misterioso linguaggio archetipale che impregna le opere provenienti da Continenti lontani:  Non è un caso che il grande Maestro Tedesco,  che scelse la nostra terra come Casa dell’ Anima,  fosse così attento alle forme delle opere tradizionali Africane; chirurgo ( 1) delle forme artistiche viste attraverso i saperi  assorbiti nei giovanili studi di medicina,  Rainer osservava una maschera, una scultura, la interiorizzava d’istinto  fermandola sulla carta, grazie alla sua grande abilità di acquerellista, ne fissava gli elementi fondanti per tradurli poi nella essenzialità del suo linguaggio artistico, che risulta così insieme sorprendentemente attuale ed emergente dalla profondità del tempo. Attenzione però! I linguaggi apparentemente lontani evocati dalle  opere esposte parlano di vita e di morte, di amore e di sofferenza, parlano cioè anche di noi, e per noi. Ma bisogna volere, e sapere, vedere. 

1) L’etimologia della parola chirurgo ha le sue radici nel dal greco χειρουργός (cheirourgos), formato da χείρ (cheir) = mano e da ἔργον (ergon) = opera; il chirurgo, quindi, è colui che opera con le mani). 

una collezione di maschere ad elmo africane dialoga con una scultura di Rainer Kriester ed un casco da Football Americano...

“He has put on justice as a breastplate, and on his head he has placed the helmet of salvation” (Is 59:17)

The helmet is both an object and a metaphor, and comes from the depths of time. The metal one, intended to physically protect the head, dates back to the time of the Sumerians (3rd millennium BC); before that it was made of leather, or cloth. Aegishjalmur, also known as the Helmet of Horror or the Helmet of the Fearless, is the ancient symbol to which the Vikings attributed the power to provide protection and instill fear in the hearts of enemies. In Italy, “Scpio’s Helmet” is the central metaphor of our National Anthem. Also known as Hannibal’s helmet, it belonged to the famous commander Publius Cornelius Scipio; was a war booty of the Carthaginian general Hannibal during the Punic Wars, becoming the emblem of the great challenge between Rome and Carthage and ending up representing the courage and strength of the warriors of both factions.

The helmet also appears in numerous legends, stories and maritime folk tales, usually as an instrument that determines the fate of ships and their crews. These stories often focus on the theme of the human struggle against the forces of nature, and the helmet represents the human ability to influence one’s own destiny despite external obstacles. ( https://symbolopedia.com/it/helm-symbolism-meaning/  ) .

The symbolic value of this type of object reasonably derives from the fact that it protects the most fragile, mysterious and vital part of the human body: the head, the physical place that houses the immaterial part of the human being, thought. It can be said that it is the essence of a person’s identity, and from here comes the need to protect it and at the same time to recognize its vital importance. The helmet is “beyond” the mask – which only covers the face – because it also alters and protects the less visible and mysterious parts of human nature, including the brain.

In the biblical tradition, the metaphorical value of the helmet indicates the same direction, being part of the defensive weapons with which God clothes his faithful: He clothes his faithful with a helmet, shield, breastplate and sword; the shield protects the heart and the breastplate the body but it is the helmet that protects the head, from which thoughts come. The metaphor of the weapons as symbols of the protection with which God clothes the believer is clarified and renewed in the Apostle Paul; “Put on the full armour of God, that you may be able to resist the wiles of the devil and to extinguish the flaming arrows of the Evil One” (cf. Eph 6:11-17). He recommends to the Ephesians to “take also the helmet of salvation” (cf. Eph 6:17a). The Greek verb also means “to accept the helmet of salvation”, significantly implying the need to accept the saving action of God within an active relationship between Creature and Creator. The helmet thus becomes a metaphor for hope, and not just defense. Again Paul, in the letter to the Thessalonians, states: “But we who belong to the day, let us be sober, putting on the breastplate of faith and love, and for a helmet the hope of salvation” (see 1 Thess 5:8).

The more in-depth history of the helmet can be found here ( https://www.treccani.it/enciclopedia/elmo/# ), and it is interesting to note that while contemporary military helmets are simple defensive devices, until the beginning of the last century they “spoke”, in the sense that in addition to performing the necessary protective function they were enriched with symbolic shapes, materials or colors; the most striking example is the Kabuto helmet, used by high-ranking Japanese Samurai ( https://temizen.zenworld.eu/paginezen/approfondimenti/kabuto-funzioni-e-simboli-dell-elmo-giapponese  ).

Even a simple and summary reconstruction like this allows us to grasp the archetypal dimension that a simple object can assume, if placed in a speculative logic, but it is placing ourselves in front of the declination of the “helmet” object that non-European cultures – and particularly African ones – do that makes the narrative power of images and their material manifestations evident.

The helmet masks that we have collected for this exhibition are profoundly different from each other in aesthetic language. They range from the essential abstraction of the Mumuye helmet mask to the realistic power of the Bundu helmets, but nothing is left to chance; every shape, color, sign, the same material used, serves to evoke a state of consciousness and to communicate it, re-ties the perennial thread between the real and the imagined, the immanent and the transcendent. The dialogue with our time and our world is entrusted to the presence of a helmet used in the game of American Football, and precisely from Pirates 1984. Hard but fair,  

this sporting disciplinehas the merit of subliminalizing aggressive instincts by directing them into a system of positive values.

Rainer Kriester’s “Heads” are instead the formidable translation into the language of modern art of that mysterious archetypal language that permeates the works coming from distant continents: It is no coincidence that the great German Master, who chose our land as the Home of the Soul, was so attentive to the forms of traditional African works; a surgeon (1) of the artistic forms seen through the knowledge absorbed in his youthful medical studies, Rainer observed a mask, a sculpture, internalized it instinctively, stopping it on paper, thanks to his great skill as a watercolourist, he fixed its founding elements to then translate them into the essentiality of his artistic language, which thus appears both surprisingly current and emerging from the depths of time. But be careful! The apparently distant languages ​​evoked by the works on display speak of life and death, love and suffering, that is, they also speak of us, and for us. But you have to want, and know, to see.

1) The etymology of the word surgeon has its roots in the Greek χειρουργός (cheiourgos), formed from χείρ (cheir) = hand and ἔργον (ergon) = work; the surgeon, therefore, is he who operates with his hands).

Giuliano Arnaldi, Onzo 16 ottobre 2024

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Un #arcipelagoculturale nel Ponente ligure /a cultural arcipelago in Western Liguria

Presentato a Villanova d’Albenga  il nuovo spazio di MAP, Museo di Arti Primarie.

Un grande spazio industriale vuoto. Pochissime opere d’arte – cinque –  provenienti da luoghi e tempi molto diversi tra loro, scelte ad esempio di quanto verrà ospitato nello spazio . Un pianoforte a coda al centro. Un musicista che fa dialogare i suoi strumenti con la eco imponente che caratterizza lo spazio, camminando tra poche persone che anch’esse si aggirano incuriosite nello spazio suggestivo e straniante. 

Enzo L’Acqua, Strutture Asimmetriche . olio su tela anno 2000. In primo piano il pianoforte Bechstein, 1922.

Così  è stato presentato domenica 22 settembre   a Coasco (Villanova d’Albenga) in località Marina Verde un nuovo spazio destinato ad ogni forma d’arte, apripista di un progetto destinato a trasformare entro il 2025 l’intero luogo ( notissimo Centro sportivo fino a qualche anno fa ) in un Polo Fieristico Museale di respiro internazionale.

“ Sugli oltre 50.000 mq di verde e spazi edificati sorgeranno in progressione spazi dedicati a musica, teatro, esposizioni d’arte, workshop in collaborazione con prestigiosi Istituti di Cultura nazionali ed internazionali. Entro dicembre 2024 cinquecento metri quadrati fino a poco tempo fa usati come magazzini diventeranno Spazio Espositivo Permanente,. Seguirà il recupero del resto dello spazio, confidando nella collaborazione attiva delle realtà pubbliche e private presenti sul territorio “ dice il giovane Presidente della Associazione MAP, Museo di Arti Primarie  Lorenzo Gaudenti,  Laureato in Scienze dei Beni Culturali presso lUniversità degli Studi di Milano e Laureato in Economia e Gestione delle Arti e delle Attività Culturali presso lUniversità Ca’ Foscari di Venezia.

La deposizione di Cristo, olio su tela cm 90,8 x 117. Italia Centrale, XVI secolo

“ LAssociazione MAP – Museo di Arti Primarie, è nata con lobiettivo di contribuire a rendere sempre più evidente  lesistenza di un  #arcipelagoculturale che rende vivo il territorio Ingauno grazie al mare di intelligenze, attività, memorie che caratterizza questa realtà da secoli. La cultura non è solo un inutile orpello, ma presidio di civiltà e motore di uneconomia sostenibile, che valorizza appartenenze e tradizioni locali, ponendole in relazione con la complessità della globalizzazione” prosegue Gaudenti, “ si avvale della #CollezioneTribaleglobale – e di altre collezioni private – per costruire eventi che per il tramite della potenza evocativa della bellezza costruiscono dialoghi destinati ad agire nel profondo; larte non è semplice decorazione, ma strumento destinato a evocare stati di coscienza legati alle grandi domande che lessere umano si pone da sempre, e le arti extraeuropee, nella loro essenzialità archetipica, risultano sorprendentemente attuali e adeguate a dialogare sia con i linguaggi tradizionali dellarte Occidentale, sia con le forme di espressione più contemporanee nate dalla nuove opportunità creative offerte dalle nuove tecnologie e dalla rivoluzione comunicativa consentita da Internet.” 

Rainer Kriester, Testa chiodata. Bronzo.
Maschera ad elmo Ngontang, Cultura Fang . Metà del XX secolo. Legno, caolino, pigmenti naturali h. cm 27. Prov. Fernandez Leventhal- NYC – e Arte Primitivo- Barcellona –

MAP è una rete di spazi espositivi esistenti da anni, e in divenire: le Case degli Artisti di Onzo e Cosio d’Arroscia, la Biblioteca Tribaleglobale di Onzo e il Parco delle Sculture di Rainer Kriester, a cui si aggiunge  oggi il  nuovo, importante e prestigioso sito di  Villanova d’Albenga. 

Lo spazio visto attraverso la Scultura Omu, Villaggio Irogo,fiume Jerei . Nord ovest Asmat . Legno policromo cm 258.
Ex Todd Barlin, ex Theodore Bruce Auction, Sidney

La presentazione è stata decisamente inusuale e suggestiva, pensata per indicare quale sarà il linguaggio espositivo scelto dagli organizzatori. Gli invitati ( artisti, operatori culturali, esponenti di Associazioni e Istituzioni ) sono entrati uno ad uno nel grande capannone che fino a poche settimane fa ospitava materiale edile, accolti dal suono del corno di Jean Duchamp, prestigioso musicista e musicologo francese che ha composto appositamente per l’evento una serie di brani intitolati “6 Echoes from Marina Verde “, caratterizzati dal dialogo tra gli strumenti musicali usati e la eco prodotta dal grande spazio vuoto; all’interno, sul lato sinistro un grande dipinto del XVI secolo posto a dialogare con un’opera in bronzo di Rainer Kriester ed una importante maschera a elmo di cultura Fang ( Gabon ) . Al centro, davanti al pianoforte a coda ( un Bechstein del 1922 posto su un antico tappeto persiano) la dimensione contemporanea delle arti visive è testimoniata da un grande trittico di Enzo L’Acqua ( Strutture Asimmetriche , cm 190 x 225, anno 2000) . Sul lato opposto dello spazio è una grande scultura del popolo Asmat  ( Papua N.G.) , 258 cm di altezza, a garantire il dialogo tra tempi e luoghi così diversi tra loro. 

“ Per tutto il mese di ottobre lo spazio ospiterà performance musicali e teatrali che  si terranno in concomitanza con le attività di ristrutturazione degli spazi, ovviamente nel rispetto delle normative di sicurezza; da qui la scelta di chiamare questo ciclo di eventi #bellezzaincantiere” dice Giuliano Arnaldi, Curatore del MAP, “ Per questo motivo non prevediamo l’apertura al pubblico, ma la trasmissione in diretta sui social network”. “

A cultural archipelago emerges in western Liguria

The new space of MAP, Museum of Primary Arts, was presented in Villanova d’Albenga.

A large empty industrial space. Very few works of art – five – from very different places and times, chosen as an example of what will be hosted in the space. A grand piano in the center. A musician who makes his instruments dialogue with the imposing echo that characterizes the space, walking among a few people who also wander curiously in the suggestive and alienating space.
This is how a new space intended for every form of art was presented on Sunday 22 September in Coasco (Villanova d’Albenga) in the Marina Verde area, a pioneer of a project destined to transform the entire place (a very well-known sports center until a few years ago) into an internationally renowned Museum and Exhibition Center by 2025.

“ On the over 50,000 square meters of greenery and built spaces, spaces dedicated to music, theater, art exhibitions, workshops will gradually arise in collaboration with prestigious national and international Cultural Institutes. By December 2024, five hundred square meters used until recently as warehouses will become a Permanent Exhibition Space. The recovery of the rest of the space will follow, trusting in the active collaboration of public and private entities present in the area ” says the young President of the MAP Association, Museum of Primary Arts Lorenzo Gaudenti, Graduated in Cultural Heritage Sciences at the University of Milan and Graduated in Economics and Management of Arts and Cultural Activities at the Ca ‘Foscari University of Venice.
” The MAP Association – Museum of Primary Arts, was born with the aim of contributing to making increasingly evident the existence of a #culturalarchipelago that brings the Ingauno territory alive thanks to the sea of ​​intelligence, activities, memories that has characterized this reality for centuries. Culture is not just a useless frill, but a bulwark of civilization and the engine of a sustainable economy, which enhances local belonging and traditions, placing them in relation to the complexity of globalization” continues Gaudenti, “it uses the #CollezioneTribaleglobale – and other private collections – to build events that through the evocative power of beauty build dialogues destined to act deeply; art is not simple decoration, but a tool intended to evoke states of consciousness linked to the great questions that human beings have always asked themselves, and the non-European arts, in their archetypal essentiality, are surprisingly current and suitable for dialoguing both with the traditional languages ​​of Western art, and with the most contemporary forms of expression born from the new creative opportunities offered by new technologies and the communication revolution allowed by the Internet.”

MAP is a network of exhibition spaces that have existed for years and are still in progress: the Artists’ Houses of Onzo and Cosio d’Arroscia, the Tribal Global Library of Onzo and the Sculpture Park of Rainer Kriester, to which the new, important and prestigious site of Villanova d’Albenga has been added today.
The presentation was decidedly unusual and suggestive, designed to indicate what the exhibition language chosen by the organizers will be. The guests (artists, cultural operators, representatives of Associations and Institutions) entered one by one into the large warehouse that until a few weeks ago housed building materials, welcomed by the sound of the horn of Jean Duchamp, a prestigious French musician and musicologist who composed a series of pieces specifically for the event entitled “6 Echoes from Marina Verde”, characterized by the dialogue between the musical instruments used and the echo produced by the large empty space; inside, on the left side a large 16th century painting placed in dialogue with a bronze work by Rainer Kriester and an important helmet mask from the Fang culture (Gabon). In the center, in front of the grand piano (a 1922 Bechstein placed on an ancient Persian carpet) the contemporary dimension of the visual arts is demonstrated by a large triptych by Enzo L’Acqua (Asymmetric Structures, 190 x 225 cm, 2000). On the opposite side of the space is a large sculpture of the Asmat people (Papua N.G.), 258 cm high, to ensure the dialogue between such different times and places.

“ Throughout the month of October the space will host musical and theatrical performances that will be held in conjunction with the renovation activities of the spaces, obviously in compliance with safety regulations; hence the choice to call this series of events #bellezzaincantiere” says Giuliano Arnaldi, Curator of the MAP, “For this reason we do not plan to open it to the public, but to broadcast it live on social networks”. “

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Kachina.

Li abbiamo defraudati anche dei nomi. Troppo difficili da pronunciare. Così i nativi Americani sono diventati “Indiani”; i primi invasori di quelle terre , ignoranti oltre che avidi, erano convinti di essere nelle indie…Uso la prima persona plurale come incipit per questo testo  perché siamo stati proprio noi, i bianchi-occidentali-cristiani ad iniziare, perseguire  e concludere il più grande genocidio della storia dell’umanità, un genocidio plurimo. Proprio noi..il primo invasore era ligure..ed a partire dal 12 ottobre 1492 decine, ragionevolmente centinaia di culture originali, complesse  e  secolari sono state cancellate. Non sarebbe moralmente accettabile iniziare un qualunque ragionamento che riguardi i Nativi Americani senza questa premessa.

Il caso degli Hopi è esattamente dentro questi parametri. Quel popolo vive  sul vasto altipiano ribattezzato dagli invasori bianchi Black Mesa. E’ una zona desertica, che alterna rocce e sabbia fino a 2000 metri di altitudine; le temperature oscillano tra  -20 e +40 gradi. Conseguentemente gli Hopi hanno sviluppato un sistema di agricoltura adeguato che garantisca la loro sussistenza,  sfruttando ogni elemento del loro ambiente. Piantano il mais, alimento principale,  utilizzando una sorta di bastone da trapianto e scavano una buca profonda da venticinque a cinque centimetri che non rompe la superficie del terreno e impedisce l’evaporazione dell’umidità sottostante. I buchi sono molto distanziati e in ognuno di essi depositano al massimo sei semi.

Si dice che piantano un seme per il vento o per il gelo, uno per i topi, uno per i corvi e due o tre per se stessi. Si ritiene che questi semi siano un segnale al dio della germinazione in modo che ciò possa accadere . Un appezzamento di mais viene seminato in due luoghi diversi, su terreno asciutto dove possono verificarsi inondazioni. Pertanto, se un appezzamento viene spazzato via da un’inondazione, l’altro può essere salvato. Se però non piove, spesso nel sottosuolo rimane abbastanza umidità residua per produrre un piccolo raccolto.

Chi coltiva ha bisogno di ogni aiuto possibile per vivere in questo ambiente. Per questo gli Hopi invocano il  mondo degli spiriti messaggeri, i Kachina, che trasmettono le loro preghiere alle divinità. Sono gli uomini ad occuparsene,  insieme ad ogni aspetto connesso alla agricoltura e alla guerra, intese nella loro dimensione religiosa. Sono però le donne a possedere la terra, la responsabilità della famiglia ed ogni forma di autorità. Si può dire che esse sono la fonte, il nucleo della vita Hopi,  a cui gli uomini devono fornire  sostentamento e protezione. Profondamente convinti che ogni cosa –  animali, piante umani, spiriti, vivi o morti   – sia strettamente correlata e reciprocamente dipendente, gli Hopi hanno creato un sistema ordinato di comportamenti, precisamente stabiliti indipendentemente dall’età. Il mondo soprannaturale è speculare a quello reale , anche se popolato da divinità, semidei, Kachina, mostri e antenati, e le loro vite rispecchiano quelle degli Hopi, sebbene abbiano il potere di controllare ogni aspetto dell’ambiente.

I Kachina prendono forma e vita attraverso i danzatori, protagonisti dei diversi riti che scandiscono il ciclo rituale della Comunità, e si riconoscono in relazione alle maschere che indossano, al costume ed al particolare tipo di movimento che fanno. Sono scolpiti anche sotto forma di bambole, chiamate Tihu, strumento mnemonico rivolto ai più giovani e destinato a tramandare  la visione del mondo HOPI. Il legno usato è il pioppo americano, la forma è cambiata nel corso dei decenni; nelle più antiche, anteriori al 1870, gli arti sono abbozzati direttamente dal tronco, in seguito si iniziò a realizzare braccia articolate che meglio rispecchiassero i movimenti del ballerini. I colori hanno valore simbolico,  riferito ai punti cardinali: giallo per il nord, blu-verde per l’ovest, rosso per il sud, bianco per l’est. Il nero raffigura lo zenit, l’insieme di colori o il grigio il nadir. I diversi toni e i simboli rimandano alle appartenenze claniche ed a specifiche funzioni. 

Xavier Mérigot per Esprit Kachina

Sono stati i Surrealisti, ed in particolare Andrè Breton, i primi a comprendere la potenza evocativa di questi oggetti ed a farli conoscere. Rimando al testo di Pierre Amrouche “ Kachina and Surrealism” pubblicato in “Esprit Kachina” ( Galerie Flack, Parigi 2003, testo di riferimento fondamentale per approfondire la conoscenza di queste formidabili sculture. 

We even cheated them of their names. Too difficult to pronounce. Thus Native Americans became “Indians”; the first invaders of those lands, ignorant as well as greedy, were convinced that they were in the Indies…I use the first person plural as an incipit for this text because it was we, the white-Western-Christians who started, pursued and concluded the greatest genocide in the history of humanity, a multiple genocide. Just us… the first invader was Ligurian… and starting from 12 October 1492 dozens, reasonably hundreds of original, complex and centuries-old cultures were erased. It would not be morally acceptable to begin any argument regarding Native Americans without this premise.

The case of the Hopi is exactly within these parameters. Those people live on the vast plateau renamed Black Mesa by the white invaders. It is a desert area, which alternates rocks and sand up to 2000 meters above sea level; temperatures fluctuate between -20 and +40 degrees. Consequently, the Hopi have developed an adequate agricultural system that guarantees their subsistence, exploiting every element of their environment. They plant corn, the main food, using a sort of transplanting stick and dig a hole twenty-five to five centimeters deep that does not break the surface of the soil and prevents the evaporation of the underlying moisture. The holes are widely spaced and a maximum of six seeds are deposited in each of them.

It is said that they plant one seed for wind or frost, one for mice, one for crows, and two or three for themselves. It is believed that these seeds are a signal to the god of germination so that a particular species of corn can germinate in this place. A plot of corn is planted in two different locations, on dry soil where flooding can occur. Therefore, if one plot is washed away by a flood, the other can be saved. However, if it doesn’t rain, there is often enough residual moisture left underground to produce a small crop.

Farmers need all the help they can get to live in this environment. For this reason the Hopi invoke the world of messenger spirits, the Kachina, who transmit their prayers to the deities. It is men who deal with it, together with every aspect connected to agriculture and war, understood in their religious dimension. However, it is women who own the land, the responsibility of the family and every form of authority. It can be said that they are the source, the nucleus of Hopi life, to which men must provide sustenance and protection. Deeply convinced that everything – animals, plants, humans, spirits, living or dead – is closely related and mutually dependent, the Hopi have created an ordered system of behaviors, precisely established regardless of age. The supernatural world is a mirror image of the real one, although populated by deities, demigods, Kachina, monsters and ancestors, and their lives mirror those of the Hopi, although they have the power to control every aspect of the environment.

The Kachina take shape and life through the dancers, protagonists of the various rites that mark the ritual cycle of the Community, and are recognized in relation to the masks they wear, the costume and the particular type of movement they make. They are also sculpted in the form of dolls, called Tihu, a mnemonic tool aimed at younger people and intended to pass on the HOPI worldview. The wood used is American poplar, the shape has changed over the decades; in the oldest ones, prior to 1870, the limbs are sketched directly from the trunk, later they began to create articulated arms that better reflected the movements of the dancers. The colors have symbolic value, referring to the cardinal points: yellow for the north, blue-green for the west, red for the south, white for the east. Black represents the zenith, the set of colors or gray the nadir. The different tones and symbols refer to clan memberships and specific functions.

It was the Surrealists, and in particular Andrè Breton, who were the first to understand the evocative power of these objects and make them known. I refer to Pierre Amrouche’s text “Kachina and Surrealism” published in “Esprit Kachina” (Galerie Flack, Paris 2003, a fundamental reference text for deepening knowledge of these formidable sculptures.

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i dischi labiali Mursi: quando la sofferenza significa bellezza e potere.

disco labiale Dhebi, cultura Mursi, Etiopia. Terracotta cm 11 x 1,8. Prov. John Van Doren

L’antropologa Shauna LaTosky, parlando alle ragazze Mursi, disse che “non c’è gran differenza nel doversi mostrare alle feste danzanti col tacco 12, oppure portare un piattello labiale della stessa misura durante i duelli donga “ (cerimonie rituali durante le quali i maschi si misurano a colpi di bastone). E che dire della chirurgia plastica,  conseguenza di un fenomeno poco considerato ma dilagante, ovvero il body fascism, l’intolleranza verso coloro i cui corpi non si conformano a una particolare visione di ciò che è desiderabile? Pare che in ogni cultura scatti la trappola di modelli di bellezza impossibili da raggiungere senza farsi male.

Il caso delle donne Mursi è più complesso. I Mursi sono una popolo di circa dodicimila persone, appartenente al più vasto gruppo dei Surma, sono agricoltori e pastori e vivono nell’Etiopia meridionale tra i fiumi Amo e Mago. Intanto il loro mito d’origine sostiene che in principio non ci fossero uomini, ma solo donne;  capitò che una ragazza raccolse un corpo che galleggiava sul fiume, dentro un’arnia di corteccia, e lo nascose nella sua capanna. Era un ragazzo, e appena divenne uomo, la mise incinta. Con il crescere della pancia crebbe la curiosità delle altre donne, a cui la ragazza rispose«Ho cotto e mangiato la terra di un termitaio e inserito nella vagina una gususi (la mordace formica legionaria Aenictus hamifer,)». Pare che altre ragazze provarono la tecnica indicata, senza successo… ma è interessante notare il fatto che terra e dolore siano elementi imprescindibili nella antropopopoiesi (1) dei Mursi, ovvero quel processo che in antropologia definisce la formazione dell’uomo-sociale, con particolare riferimento  alla modificazione del corpo fisico:  Fin  dall’antichità l’essere umano ha considerato imperfetto il proprio corpo, e vissuto questa imperfezione come un limite rispetto alle proprie aspettative,  sopratutto in termini di relazione sociale; conseguentemente ha sentito l’esigenza di porre il corpo  dentro una visione del mondo che consentisse di elaborare risposte alle grandi domande dell’esistenza , creando quella che chiamiamo cultura. 

Veniamo quindi al Dhebi, il piattello labiale indossato dalle ragazze Mursi in attesa di sposarsi . E’ un disco in terracotta – in casi rari in legno – normalmente misura tra i 10 e 12 cm, è spesso poco più di un centimetro e pesa oltre 150 gr. Viene inserito nel labbro inferiore alla fine di un percorso che dura circa tre mesi ed inizia con  l’incisione del labbro, effettuata dalla madre o da un’altra donna della comunità. Viene inserito un pezzetto di legno fino a che la ferita – dolorosissima! – non si è cicatrizzata. A quel punto la ragazza provvederà ad allargare il foro sempre di più fino a raggiungere la dimensione desiderata, normalmente circa 12 cm

Ovviamente è necessario sfilalo per bere e mangiare, ed è particolarmente ingombrante. Ma è l’elemento più significativo nel percorso di seduzione. Il mento oscilla avanti e indietro in modo sensuale, generando un suono sottile che  i  Mursi chiamano zes zes. E’ un risultato che si ottiene al prezzo di grandi sofferenze; le dimensioni del disco obbligano a rimovere gli incisivi inferiori con una lama affilata, e non si deve piangere. E’ probabile che questo rito sia una feroce metafora della capacità di affrontare le difficoltà della vita, e che quindi  deformità e dolore siano fine,  e non mezzo. In genere le mutilazioni femminili sono fatte per assecondare gli uomini, ma sono fortemente volute e perpetrate dalle donne.  E’ ragionevole ritenere che, almeno in questo caso, siano un modo dolorosamente concreto per affermare una forza esistenziale che il maschio non può sottovalutare. La vita di questi oggetti è legata alla loro funzione: è indossato sempre quando si cerca marito, in cerimonie pubbliche particolarmente rilevanti nel caso di giovani spose, e gettato in caso di morte dello sposo. 

La suggestione contemporanea di questi oggetti è palese. Sembrano dipinti da un Artista Contemporaneo,  rigorosi nella loro armonia formale che rimanda certamente ad un “ codice” , ma è non  semplice leggerli, decodificare il significato di forme e colori dipinti sul disco; Secondo Alberto Salza (africarivista.it) certamente ne esistono almeno tre tipi in terracotta:  “ rosso (dhebi a golonya), marrone (a luluma), nero (a korra) e creta naturale (a holla, “bianco”). I piattelli rossi, coperti dalla corteccia profumata di un albero di foresta, si ottengono sui carboni ardenti. I piattelli “bianchi” sono in terracotta, ma non sfregati con l’erba, che tinge di nero; il bruno si ottiene dalla combustione di una pianta medicinale che aiuta la cicatrizzazione delle ferite. Oltre a quelli in terracotta, esistono i rari piattelli di legno (burgui), fatti esclusivamente dagli uomini mursi. “ 

  1. Personalmente mi affascina il fatto che termine ‘antropopòiesi’ sia costruito sulle due parole greche anthropos, ‘essere umano’, e poiesis, che significa ‘costruzione’, ma anche ‘composizione poetica’.
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Togu na, la Casa parla/ Togu na, the house speaks

La Casa della Parola dei Dogon parla fin dal modo in cui è fatta ed è posizionata…
The Dogon House of the Word speaks from its forms, and position…

E’ raro che da questa parte del mondo gli spazi abitativi comuni ( villaggi, città quartieri, città..) siano stati progettati secondo una visione che vada oltre le necessità funzionali. C’è stata nel passato  una attenzione agli elementi naturali ( luce, presenza dell’acqua, venti.. ) e nel caso degli edifici di culto un orientamento rispetto al sorgere del sole, ma non pare ci sia stato  interesse verso elementi più trascendenti.

Non è certamente il caso delle culture che ci ostiniamo a definire ”primitive.” I popoli Pigmei della foresta dell’Ituri, ad esempio, smontano e rimontano le loro semplici capanne secondo un preciso schema valoriate prima che funzionale, i Dogon del Mali orientano i loro villaggi secondo criteri ben precisi, da nord a sud, dando loro una forma “urbanistica” che ricordi un uomo supino, potremmo dire sdraiato per guardare le Stelle. La testa di questo uomo immaginato ( o meglio evocato) è il Togu na. Togu significa riparo, na significa madre. Il Togu na è quindi il Grande Riparo, Madre Riparo. i Dogon lo indicano anche come “Casa della Parola” (la parola pronunciata nel togu na assume valori ed importanza che la differenziano da ogni altra) Sede specifica della parola “seduta”, calma e ponderata, è il centro nel quale si assumono le decisioni che governano il villaggio. La forma rimanda al  riparo dove si riunirono gli otto antenati primordiali, ciascuno dei quali è identificato con un pilastro, spesso scolpiti con immagini antropozoomorfe. L’impianto ideale del Togu na è rettangolare, orientato secondo i punti cardinali, ma vi  sono numerose  varianti sia nella forma che nei materiali. In generale si tratta di una bassa costruzione definita da tre file di pilastri lignei o in pietra, e da una travatura che sostiene  una copertura fatta di strati sovrapposti di materiale vegetale, normalmente steli di miglio,  con la funzione pratica di riparare efficacemente dal sole senza impedire la ventilazione. Che ogni elemento di quella cultura, compresi quelli materiali,  sia destinato a parlare, lo dicono le caratteristiche  comuni ad ogni Togu Na.  Le dimensioni sono sempre tali da permettere che la parola espressa in tono calmo e normale possa raggiungere chiunque sieda sotto al grande riparo e l’altezza dello spazio utile interno è sempre ridottissima, al fine di impedire  alla persona  di rimanere in piedi. Si può veramente dire che la Casa della Parola parla fin dal suo modo di essere! Anche la presenza  pressoché costante di un grande fico nelle immediate vicinanze del Togu na ha una funzione sia pratica che simbolica: serve insieme ad individuare facilmente il luogo anche da lontano, ed evoca un antico proverbio Dogon, “ l’ombra del fico è come il riparo della parola”.

It is rare that in this part of the world common living spaces (villages, cities, neighborhoods, cities…) have been designed according to a vision that goes beyond functional needs. In the past there has been attention to natural elements (light, presence of water, winds…) and in the case of buildings of worship an orientation towards the rising of the sun, but there does not seem to have been an interest in more transcendent elements.

This is certainly not the case with cultures that we persist in defining as “primitive.” The Pygmy people of the Ituri forest, for example, dismantle and reassemble their simple huts according to a precise scheme that values ​​rather than functions, the Dogon of Mali orient their villages according to very specific criteria, from north to south, giving them a shape “urban planning” that recalls a supine man, we could say lying down to look at the Stars. The head of this imagined (or rather evoked) man is the Togu na. Togu means shelter, na means mother. The Togu na is therefore the Great Shelter, Mother Shelter. the Dogon also indicate it as the “House of the Word” (the word pronounced in the togu na takes on values ​​and importance that differentiate it from any other) Specific seat of the word “sitting”, calm and thoughtful, is the center in which decisions are made who govern the village. The shape refers to the shelter where the eight primordial ancestors gathered, each of which is identified with a pillar, often carved with anthropozoomorphic images.

The ideal layout of the Togu na is rectangular, oriented according to the cardinal points, but there are numerous variations in both shape and materials. In general it is a low construction defined by three rows of wooden or stone pillars, and by a beam that supports a covering made of overlapping layers of plant material, normally millet stems, with the practical function of effectively protecting from the sun without prevent ventilation. The characteristics common to each Togu Na say that every element of that culture, including the material ones, is destined to speak. The dimensions are always such as to allow the word expressed in a calm and normal tone to reach anyone sitting under the large shelter and the height of the internal useful space is always very low, in order to prevent the person from remaining standing. It can truly be said that the House of the Word speaks from its way of being! Even the almost constant presence of a large fig tree in the immediate vicinity of the Togu na has both a practical and symbolic function: it serves both to easily identify the place even from afar, and evokes an ancient Dogon proverb, “the shadow of the fig tree is like the shelter of the word”.

Giuliano Arnaldi, Onzo 24 settembre 2024

le foto sono tratte da Togu Na, Spini – Electa 1976

palo di Togu na, Collezione Tribaleglobale pro. G.F.Scanzi cm 206

Palo di Togu na Collezione Tribaleglobale cm 169 prov. G.F.Scanzi

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COMBS /„Tutti i nodi vengono al pettine. Quando c’è il pettine.“

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Per la presentazione della nostra collezione di pettini ho scelto una frase di Leonardo Sciascia; definisce in modo caustico ed essenziale l’importanza che riconosciamo a questo piccolo oggetto d’uso quotidiano, ne svela il profondo significato simbolico e concettuale.  Come nasce un pensiero, o meglio, come nasce il pensiero, come si evolve fino a diventare un sistema complesso ed articolato che diventa cultura? Si può certamente dire che fino dall’antichità più remota l’osservazione di gesti istintivi fondamentali per la sopravvivenza , l’interiorizzazione del loro manifestarsi che ne qualifica l’utilità funzionale, sono l’insieme fondante del processo di conoscenza . Osservare, comprendere, astrarre e concettualizzare una esperienza ponendola in relazione ad altre, rende quella esperienza patrimonio culturale. E l’essere umano è sempre partito dal proprio corpo, dal modo in cui esso si fa strumento per governare il mondo circostante fin dalle azioni più semplici. 

Pensate alla mano, primo strumento che districa i peli incolti del primate ( e poi dell’uomo), che lo aiuta ad aprirsi un varco nella radura. Probabilmente il primo pettine è nato così, realizzato da qualcuno che osservò la propria mano e la riprodusse nella forma, che parte spessa e solida per dipanarsi in una serie di elementi appuntiti. Come la   mano districa i capelli, apre la strada nella foresta, i denti del pettine mettono ordine nei capelli e li liberano da parassiti. E non deve essere un caso che gli elementi terminali del pettine siano chiamati da sempre denti. 

I pettini presentati in questa pubblicazione provengono da aree geografiche e culturali profondamente diverse tra loro. Africa, Oceania e Indonesia, India. il linguaggio estetico, i materiali usati, i riferimenti simbolici ne dichiarano l’appartenenza culturale e geografica, ma  hanno origine comune.

Osserva Donatella Dolcini, Professore Ordinario di Lingua Hindi e Cultura Indiana presso Università Statale Milano (UNIMI) nel catalogo che presentò la collezione di pettini raccolta da Giuseppe Berger : “Al pari di dita/unghie, anche i denti svolgono una funzione di primaria importanza nel ritmo quotidiano della vita dell’uomo, permettendogli di incidere il cibo così da ridurlo immediatamente da un complesso unico e coeso – difficile da inghiottire, grande o piccolo che sia – a uno almeno grossolanamente parcellizzato. In sostanza, una variante del gioco delle dita che dividono un unico blocco in porzioni (strisce) più minute e agevoli da gestire. E infine l’elaborazione del pettine, dal mero uso primario, direttamente disceso dall’analogia con la mano, a quello mediato dalla dentatura, giunge a quel terzo stadio, immancabile nei processi di manifattura dell’uomo, che è il lato estetico. La mano-pettine, che in seconda battuta aveva incorporato anche l’imitazione della funzione dentaria, diventa alla fine un oggetto ancora più evoluto, in cui si manifesta non più solo la concreta estensione tecnologica di organi naturali, ma anche il libero apporto della creatività umana. Così la forma del pettine si abbellisce con l’eventuale aggiunta di un manico più o meno elaborato e di ghirigori che vanno ad impreziosire l’impugnatura, e modifica la propria misura fino a diventare il pettinino, un grazioso e aggraziato complemento della toilette e dell’abbigliamento soprattutto femminile.“ 

Il valore insieme semplice e profondo di questo tipo di oggetti è sorprendente, manifesta in modo netto la capacità umana di elaborare esperienze e migliorarle costantemente mediante un perfezionamento tecno logico che non è prodotto da macchine ma dall’ingegno. Ed è altrettanto sorprendente la necessità di rendere l’oggetto non solo funzionale ma anche bello, caricandolo di contenuti simbolici evocativi che spesso sono destinati ad amplificarne metaforicamente la funzione. Nei pettini delle culture Ivoriane, in gran parte raccolte da Giovanni Franco Scanzi negli anni sessanta del secolo scorso, l’elemento identitario è evidente. Le forme rimandano a figure di Antenati Ancestrali, oggetti sacri, animali il cui potere energetico, per il tramite dell’oggetti, potrà aiutare chi lo usa.  Nel caso degli antichi pettini in avorio provenienti dalla Collezione Berger, in gran parte “scritti” con la figura di Ganesh, sempre Dolcini nota giustamente “Forse la ricorrente iconografia sul pettinino del dio elefante (Ganesh appunto) potrebbe collegarsi all’immagine simbolica che la capacità del pachiderma a farsi largo nella fitta vegetazione della giungla, penetrandovi dentro, suscita riguardo al figlio di Shiva, adorato infatti anche come rimovitore degli ostacoli.

For the presentation of our collection of combs I chose a phrase from the Sicilian writer Leonardo Sciascia; defines in a caustic and essential way the importance we recognize in this small object of everyday use, revealing its profound symbolic and conceptual meaning.

How does a thought arise, or rather, how does thought arise, how does it evolve to become a complex and articulated system that becomes culture? It can certainly be said that the observation of instinctive gestures fundamental for survival since the most remote antiquity, the internalization of their manifestation, the fundamental elements that qualify their functional usefulness are the founding whole of the knowledge process. Observing, understanding, abstracting and conceptualizing an experience by placing it in relation to others makes that experience cultural heritage. And the human being has always started from his own body, from the way in which it becomes an instrument to govern the surrounding world starting from the simplest actions.

Think of the hand, the first tool that untangles the unkempt hair of the primate (and then of man), which helps him to open a path in the clearing. The first comb was probably born like this, made by someone who observed his own hand and reproduced its shape, which starts out thick and solid and then unravels into a series of pointed elements. As the hand untangles the hair, opens the way in the forest, the teeth of the comb tidy up the hair and free it from parasites. And it must not be a coincidence that the terminal elements of the comb have always been called teeth. The combs presented in this publication come from profoundly different geographical and cultural areas. Africa, Oceania and Indonesia, India. the aesthetic language, the materials used, the symbolic references declare their cultural and geographical belonging, but they have a common origin.

Donatella Dolcini, Full Professor of Hindi Language and Indian Culture at the Milan State University (UNIMI) observes in the catalog that presented the collection of combs collected by Giuseppe Berger: “Like fingers/nails, teeth also perform a function of primary importance in daily rhythm of man’s life, allowing him to affect food so as to immediately reduce it from a single and cohesive complex – difficult to swallow, large or small – to one that is at least roughly fragmented. In essence, a variant of the game of fingers that divide a single block into smaller and easier to manage portions (strips). And finally the development of the comb, from the mere primary use, directly descended from the analogy with the hand, to that mediated by the teeth, reaches that third stage, inevitable in man’s manufacturing processes, which is the aesthetic side. The hand-comb, which subsequently also incorporated the imitation of the dental function, ultimately becomes an even more evolved object, in which not only the concrete technological extension of natural organs is manifested, but also the free contribution of creativity Human. Thus the shape of the comb is embellished with the possible addition of a more or less elaborate handle and curlicues that embellish the handle, and changes its size until it becomes the comb, a graceful and graceful complement to the toilet and the ‘especially women’s clothing.“

The simple and profound value of this type of object is surprising, it clearly demonstrates the human ability to process experiences and constantly improve them through technological improvement that is not produced by machines but by ingenuity. And equally surprising is the need to make the object not only functional but also beautiful, loading it with evocative symbolic contents which are often intended to metaphorically amplify its function.

In the combs of the Ivorian cultures, largely collected by Giovanni Franco Scanzi in the sixties of the last century, the element of identity is evident. The shapes refer to figures of Ancestral Ancestors, sacred objects, animals whose energetic power, through the objects, can help those who use it. In the case of the ancient ivory combs from the Berger Collection, largely “written” with the figure of Ganesh, Dolcini rightly notes “Perhaps the recurring iconography on the comb of the elephant god (Ganesh precisely) could be connected to the symbolic image that the pachyderm’s ability to make its way through the dense vegetation of the jungle, penetrating it, arouses respect for the son of Shiva, who is also worshiped as a remover of obstacles.“

Giuliano Arnaldi, Onzo 21 settembre 2023

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LA CASA DEGLI ARTISTI di Cosio d’Arroscia 2/ CoBrA!

Casa degli artisti, Cosio d’Arroscia.
Rete MAP MUSEO NOMADE DI ARTI PRIMARIE

In qualche modo l’esperienza dell’internazionale Situazionista, nata nel 1957 a Cosio d’Arroscia, nacque da una breve, intensa e lungimirante avventura artistica conosciuta come C0.Br.A. Il gruppo deve il nome alle città di provenienza dei fondatori, Copenaghen, Brussels, Amsterdam. Asger Jorn, Pierre Alechinsky, Karel Appel e altri tra cui Corneille e Vardercam . Nonostante la breve durata ( dal 1948 al 1951, con solo due mostre all’attivo ) quel modo di fare arte, così “brutale”, immediato e istintivo cambiò il modo stesso di intendere la pittura e la stessa idea di opera artistica. La critica radicale del mercato arrivò fino a cambiare la percezione del rapporto tra opera, artista e collezionista, e pose le basi per giungere qualche anno dopo alla provocatoria pittura industriale venduta a metro del “Situazionista” Pinot Galizio. In realtà gli Artisti del Co.Br.A. furono sperimentatori di nuove tecniche, facendo della riproduzione seriale di un’opera d’arte una esperienza non solo legata alla necessità di rendere l’accesso all’arte più economico ( e quindi più “democratico) . Le opere vennero “pensate” per essere riprodotte con tecniche di stampa particolari, spesso rese di fatto uniche con interventi originali e specifici sulle diverse copie, e gli stampatori vennero coinvolti nella creazione artistica. E’ particolarmente significativa in questa ottica l’esperienza dei Fratelli Pozzo di Torino e delle loro Edizioni d’Arte, dirette non a caso da Ezio Gribaudo, Artista poi divenuto Presidente Emerito della Accademia Albertina di Torino. La Prova d’Artista di Asger Jorn del 1970, che esponiamo in questa occasione, proviene da questa esperienza. Anche le altre opere in esposizione. La Prova d’Artista di Karel Appel , iconica nel linguaggio estetico di quel movimento, è stampata su pergamena, mentre la Prova d’Artista di Pierre Alechinsky è realizzata con tecniche diverse, dall’incisione alla fotografia. Certamente ci furono anche Artisti che della serialità dell’opera d’arte fecero un uso più “estetico” e conseguentemente commerciale, come testimonia la litografia di Corneille, ancorché realizzata in una bassa tiratura.

L’opera di Serve Vandercam è invece un dipinto su carta riportato su tela

“ Asger Jorn: dipingere con la tipografia” La testimonianza di Ezio Gribaudo “ Ho conosciuto Asger Jorn nei primi anni sessanta, durante la preparazione di un volume che ho stampato alla Fratelli Pozzo per Noel Arnaud, La langue verte et la cuite, edito da Jean-Jacques Pauvert. Il libro fu costruito sui tavoli del montaggio, dove si decorarono le lingue, si scelsero e ritagliarono le immagini; non fu preparata una vera e propria maquette, ma si procedette n una mise en page a più mani. Jorn lavorò una settimana. Fino a sera inoltrata dormendo su un lettino di fortuna in infermeria; capiva di avere a disposizione un parco macchine speciale e mi fu sempre grato di avergli dato l’opportunità di dipingere con la tipografia Jorn amava molto la tipografia, l’odore degli inchiostri e dei piombi, dei cliche e dei fani; gli piaceva lavorare direttamente sulle lastre e si cimentava a realizzare opere sperimentali di grafica di grande formato su cui interveniva personalmente di inchiostri e caratteri tipografici. Proprio per la Fratelli Pozzo realizzò la litografia più grande della sua carriera (200 x 140 cm). Jorn amava la parte più creativa e, come se si fosse trovato nel proprio atelier, riuscivamo a dar vita a un lavoro collettivo con i cromisti e le altre maestranze. Ho realizzato con lui due volumi, il primo nel 1970, Jorn a Cuba, testimonianza del suo lavoro svolto a L’Avana su invito del governo cubano nel 1968 che risponde, da un lato, all’idea dell’impegno sociale dell’autore e, dall’altro, ai legami internazionali anche con altri artisti, per esempio Wifredo Lam. Il secondo, Le jardin d’Albisola, è uscito postumo nel 1974 e documenta le ceramiche che l‘artista danese realizzava appunto in questo luogo della Liguria, ora diventato Museo.” Testimonianza di Ezio Gribaudo. Si ringrazia la dott.ssa CATERINA FOSSATI 

Somehow the experience of the Situationist international, born in 1957 in Cosio d’Arroscia, was born from a short, intense and farsighted artistic adventure known as C0.Br.A. The group owes its name to the cities of origin of the founders, Copenhagen, Brussels, Amsterdam. Asger Jorn, Pierre Alechinsky, Karel Appel and others including Corneille and Serge Vardercam. Despite the short duration (from 1948 to 1951, with only two active exhibitions) that way of making art, so “brutal”, immediate and instinctive changed the very way of understanding painting and the same idea of ​​artistic work. The radical critique of the market went so far as to change the perception of the relationship between work, artist and collector, and laid the foundations for arriving a few years later at the provocative industrial painting sold by the meter of the “Situationist” Pinot Galizio. Actually the Artists of the Co.Br.A. they were experimenters of new techniques, making the serial reproduction of a work of art an experience not only linked to the need to make access to art cheaper (and therefore more “democratic”). The works were “designed” to be reproduced with particular printing techniques, often made in fact unique with original and specific interventions on the various copies, and the printers were involved in the artistic creation. In this perspective, the experience of the Pozzo Brothers of Turin and their Art Editions is particularly significant, directed not by chance by Ezio Gribaudo, an artist who later became President Emeritus of the Accademia Albertina in Turin. Asger Jorn’s Proof of Artist from 1970, which we are exhibiting on this occasion, comes from this experience. Also the other works on display. Karel Appel’s Artist’s Proof, iconic in the aesthetic language of that movement, is printed on parchment, while Pierre Alechinsky’s Artist’s Proof is made with different techniques, from etching to photography. Certainly there were also artists who made a more “aesthetic” and consequently commercial use of the seriality of the work of art, as evidenced by Corneille’s lithograph, albeit made in a small edition.

“ Asger Jorn: painting with typography”

The testimony of Ezio Gribaudo

“ I met Asger Jorn in the early sixties, during the preparation of a volume that I printed at Fratelli Pozzo for Noel Arnaud, La langue verte et la cuite, edited by Jean-Jacques Pauvert. The book was built on the editing tables, where the languages ​​were decorated, the images were chosen and cut out; a real maquette was not prepared, but a multi-handed mise en page proceeded. Jorn worked for a week. Until late in the evening sleeping on a makeshift cot in the infirmary; he understood that he had a special fleet of machines at his disposal and he was always grateful to me for having given him the opportunity to paint with typography. Jorn was very fond of typography, the smell of inks and leads, clichés and fans; he liked to work directly on the plates and tried his hand at creating experimental works of large format graphics on which he personally intervened with inks and typographic characters. Precisely for Fratelli Pozzo he created the largest lithograph of his career (200 x 140 cm). Jorn loved the most creative part and, as if he were in his own atelier, we were able to create a collective work with the chromatists and other workers. I wrote two volumes with him, the first in 1970, Jorn in Cuba, evidence of his work carried out in Havana at the invitation of the Cuban government in 1968 which responds, on the one hand, to the idea of ​​the author’s social commitment and , on the other hand, to international ties also with other artists, for example Wifredo Lam. The second, Le jardin d’Albisola, was published posthumously in 1974 and documents the ceramics that the Danish artist made precisely in this place in Liguria, which has now become a museum.”

Testimony of Ezio Gribaudo.

Thanks to Dr. CATERINA FOSSATI

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Dove / Where focus

LA CASA DEGLI ARTISTI di Cosio d’Arroscia 1/ Rainer Kriester

Le SituAzioni Tribaliglobali trovano casa nel paese dove nacque il Situazionismo. / Tribal global Situ Actions find a home in the place where Situationism was born in 1957.

https://flic.kr/s/aHBqjALDK5

DANKE RAINER!

Onorare  la memoria di un grande Artista non è solo doveroso, ma utile. Si onora la memoria di qualcuno che ha lasciato  una traccia,  a disposizione di chi resta nel faticoso cammino della vita: una lezione che insegna a meglio vedere un percorso.  

Nel caso di un Artista questa verità è ancora più tangibile perché  l’arte parla un linguaggio universalmente semplice , chiaro in ogni tempo e in ogni luogo: il linguaggio della bellezza.

È un linguaggio che si comprende nella dimensione delle emozioni più che in quella delle parole, un linguaggio che non descrive ma evoca.

Capita talvolta che accada anche qualcosa di più , che il passare del tempo sveli una profondità ancora maggiore nella traccia rimasta e questo è certamente il caso di Rainer Kriester. 

Con il passare del tempo comprendiamo sempre più e sempre meglio il valore archetipico del suo linguaggio, quel mescolare segni, cifre, forme, materia in modo insieme così misterioso e così familiare , come a ricordarci che siamo fatti per comprendere la bellezza dei numeri e il rigore scientifico delle forme , dei segni e della materia, come a ricordarci che ciò accade perché non c’è frattura tra cervello e cuore.

Nello Sala Permanente dedicata a Rainer Kriester presso la Casa degli Artisti di Cosio d’Arroscia, Paese Situazionista, abbiamo scelto di esporre la formidabile quotidianità di Rainer: una parte delle preziosissime chine che il Maestro faceva praticamente ogni igiorno, per fermare pensieri da trasformare in opere d’arte. Sono potenti, monumentali e solide come le sue sculture. Articolati e profondi nel continuo rimando ad un antico alfabeto metaforico che sembra poter svelare i segreti più arcani dell’universo, queste piccole chine  anticipano la  “leggerezza”  delle sculture in pietra e bronzo, presenze quasi intangibili per l’armonia tra forme, materia e segno. Grazie alla disponibilità di Jean Marc Beyer  , custode attento della memoria di Rainer e Christiane, possiamo vedere quelle opere in un ambiente arredato con i mobili originali provenienti dalla abitazione Vendonese del Maestro e della sua indimenticata compagna di una vita, Christiane. 

Non c’è da stupirsi : lo splendore del Vero rompe gli schemi di una osservazione superficiale e obbliga ad un altro sguardo , ad un’altra profondità di campo dove il metro di misura si cerca dentro di se e non fuori.

Abbiamo scelto – in omaggio alla preveggenza visionaria di uno dei pochi Artisti del Novecento  che abbia colto , testimoniato e tradotto nel linguaggio del nostro tempo il messaggio profondo delle Arti Primarie – di esporre in questa Sala una prestigiosa raccolta di maschera a elmo, provenienti da diverse culture Africane. Di fatto sono  teste, e le loro forme furono studiate con attenzione da Kriester _ come testimonia una nutrita collezione di chine – , fino a diventare parte fondamentale del linguaggio  estetico del grande Maestro Tedesco. L’insieme di opere così  diverse nel tempo e nei luoghi ci consente di vedere la segreta armonia che nasce dal dialogo tra opere d’arte apparentemente così distanti tra loro per origine e materia. L’arte si manifesta così come  un forte richiamo alla  fratellanza universale di ogni essere umano: non è neutrale, è  maestra di Vita e ci ricorda nei momenti difficili come quello che stiamo vivendo che è nell’Altro che possiamo trovare il meglio di noi stessi. Danke,  Rainer. 

Honoring the memory of a great Artist is not only a duty, but a useful one. The memory of someone who has left a trace is honored, available to those who remain on the tiring journey of life: a lesson that teaches us to better see a path.
In the case of an Artist this truth is even more tangible because art speaks a universally simple language, clear in every time and place: the language of beauty.
It is a language that is understood in the dimension of emotions rather than in words, a language that does not describe but evokes.

Sometimes something more also happens, that the passage of time reveals an even greater depth in the remaining track and this is certainly the case with Rainer Kriester.
Over time we understand more and more and better the archetypal value of his language, that mix of signs, figures, shapes, matter in a way that is both so mysterious and so familiar, as if to remind us that we are made to understand the beauty of numbers and the scientific rigor of forms, signs and matter, as if to remind us that this happens because there is no break between the brain and the heart.In the Permanent Room dedicated to Rainer Kriester at the Casa degli Artisti in Cosio d'Arroscia, a Situationist town, we have chosen to exhibit the formidable everyday life of Rainer: a part of the very precious inks that the Maestro made practically every day, to freeze thoughts to be transformed in works of art. They are powerful, monumental and solid like his sculptures. Articulate and profound in the continuous reference to an ancient metaphorical alphabet that seems to be able to reveal the most arcane secrets of the universe, these small inks anticipate the "lightness" of sculptures in stone and bronze, almost intangible presences for the harmony between shapes, materials and sign. Thanks to the availability of Jean Marc Beyer, attentive guardian of the memory of Rainer and Christiane, we can see those works in an environment furnished with the original furniture from the Vendonese home of the Master and his unforgettable lifelong companion, Christiane.
No wonder: the splendor of the True breaks the mold of a superficial observation and forces us to take another look, to another depth of field where the yardstick is sought within and not outside.

We have chosen - in homage to the visionary foresight of one of the few 20th century artists who have grasped, witnessed and translated the profound message of the Primary Arts into the language of our time - to exhibit in this Room a prestigious collection of helmet masks, from different African cultures. In fact they are heads, and their shapes were carefully studied by Kriester _ as evidenced by a large collection of inks - until they became a fundamental part of the aesthetic language of the great German Master. The set of works so different in time and place allows us to see the secret harmony that arises from the dialogue between works of art that are apparently so distant from each other in origin and material. Art thus manifests itself as a strong call to the universal brotherhood of every human being: it is not neutral, it is a teacher of Life and reminds us in difficult moments such as the one we are experiencing that it is in the Other that we can find the best of ourselves . Danke, Rainer.



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Un’archetipo suggestivo: Chi Wara.

Maschera ad elmo Chiwara/ Sogolikun. Cultura Bamana, Mali.

Legno. Cm 46 Provenienza collezione privata, Spagna, Native Auction.

( Il nome Sogonikun è dato a un tipo di cimiero e figura mascherata che apparve a Wasolon e fu adottato nelle regioni vicine. ). Per un esemplare molto simile si veda Sotheby’s, NYC 7557 pag 23 figura 17

La vita sociale, economica e spirituale dei Bamana, nel sud-ovest del Mali, è governata da sei società di iniziazione conosciute collettivamente come dyow (sing. dyo). Le sei società sono n’domo, komo, nama, kono, chi wara e kore. Un Bamana deve passare rispettivamente attraverso tutte e sei i livelli di iniziazione per essere considerato un uomo completo con una visione completa degli insegnamenti e delle tradizioni ancestrali.

Ogni società di iniziazione ha il proprio tipo di maschera associato (per lo più zoomorfa, cioè basata su forme animali) tra cui i copricapi agricoli di antilopi chi wara (chiamato anche ci wara / tyi wara che significa ‘animale selvatico al lavoro’) dyo. L’obiettivo principale del chiwara dyo è quello di educare gli uomini alle migliori pratiche agricole e di onorare Chi Wara, l’eroe culturale dei Bamana, che ha creato le conoscenze relative alla coltivazione della terra ai Bamana. I membri del chi wara dyo si esibiscono in danze mascherate non solo per celebrare il loro mito, Chi Wara, ma anche per garantire la fertilità dei loro campi e pregare gli dei per un buon raccolto. Le celebrazioni vengono utilizzate anche per riconoscere pubblicamente l’esperienza degli agricoltori di successo.

Le antilopi scolpite sono conosciute come Chiwara o  come “Tijwara”“la bestia che lavora” (“tij”: lavoro, “wara”: animale selvatico). Ricordano un essere mitico, metà uomo e metà animale, che in un passato leggendario insegnò all’uomo come coltivare la terra. Ma quando il grano abbondava, gli uomini cominciarono a sprecarlo. “Tijwara” si seppellì nel terreno e gli uomini, dopo averlo perso, scolpirono una scultura in sua memoria. “Tijwara” appare in coppie, una figura maschile ed una  femminile, scolpite in legno e fissate ad un copricapo di vimini. I ballerini, curvi  su bastoni di legno a simulare le zampe anteriori dell’animale, erano  erano completamente nascosti da mantelli di fibre vegetali. Il significato centrale di “tijwara” originariamente era quello di incoraggiare la coltivazione collettiva della terra con la zappa. Di conseguenza si esibivano in tre occasioni: sarchiatura competitiva, danze di gioia dopo il lavoro collettivo sul campo e celebrazione annuale della società di iniziazione. 

The name Sogonikun is given to a type of crest and masked figure that appeared in Wasolon and was adopted in neighboring regions. Like the Ci-wara, these crests are characteristic of a village association (ton). They appeared in the village or in the fields during the competitions in which the peasants were engaged. Groups of itinerant dancers could go from village to village (see P. Imperato, 1981). (see Bambara, Rietberg Museum 2002 page 221 figure 207

The social, economic and spiritual lives of Bamana men, in Southwestern Mali, are governed by six initiation societies collectively known as dyow (sing. dyo). The six societies are n’domo, komo, nama, kono, chi wara and kore. A Bamana man must pass through all six initiation societies respectively to be considered a rounded man with full insight into ancestral teachings and traditions.

Each initiation society has its own associated mask type (mostly zoomorphic, i.e. based on animal forms) including the chi wara (also called ci wara / tyi wara meaning ‘labouring wild animal’) dyo’s antelope agriculture headdresses. The main aim of the chi wara dyo is to educate men on farming best practices and to honour Chi Wara, the cultural hero of the Bamana, who thought the skills of land cultivation to the Bamana. Members of the chi wara dyo perform dances with masquerades to not only celebrate their hero, Chi Wara, but to also ensure the fertility of their fields and to pray to the gods for a good harvest. The celebrations are also used to publicly acknowledge the expertise of successful farmers.

NOTE: The circumcised youth ton associations and the voluntary gonzon society also make use of headdresses similar to chi wara called n’gonzon koun.

Fonte Imodara.com 

The carved antelopes are known as Chiwara or “tijwara” – “the beast who labors” (“tij”: work, “wara”: wild animal). They recall a fabulous being, half man, half animal, who in legendary past thaught man how to cultivate the earth. But as grain grew abundant, men began to waste it. “Tijwara”buried himself in the ground, and men, having lost him, carved a sculpture in his memory.

“Tijwara” appear in male and female pairs on basketry caps. The dancers were bent over forelegs of wooden sticks and were completely hidden by cloaks of plant fibre.

The central meaning of “tijwara” originally was to encourage the collective farming of land with the hoe. Accordingly they performed on three occasions: competitive weeding, dances of joy after the collective field work was done and at the annual celebration of the initiation society.

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Bwoom, a royal Kuba Mask. Una Maschera reale Kuba

Maschera Bwoom, Cultura Kuba, R.d.Congo, metà del XX secolo legno, caori, perline, pelle, cm 34 prov. Christie’s 6/03/1990 Arte Primitivo Barcellona

Questa maschera ad elmo, chiamata Bwoom, danza durante le cerimonie di iniziazione maschile (nkaan); esse hanno la funzione di insegnare agli iniziati la storia, i valori culturali di Kuba e di onorare la memoria di Woot (il padre fondatore e antenato di tutti i re Kuba). Le opinioni su ciò che rappresenta Bwoom sono diverse : alcune fonti indicano che la maschera rappresenta un principe (fratello minore del re), afflitto da un problema neurologico che provocava il gonfiore della testa, altre che sia l’immagine di uno degli abitanti originari della regione, i Pigmei Twa, altre ancora che bwoom sia stato creato per il re regnante dell’epoca, Miko mi-Mbul, creata in alternativa alla maschera reale mwaash ambooy, per essere indossata dal re per curare la sua malattia mentale (da qui la sua descrizione locale “una persona di basso rango poco degna di essere incarnata dal re”). Bwoom è universalmente ritenuto uno spirito della natura (ngesh; pl. mingesh) che appare agli iniziati nkaan ed aiuta a potenziare l’influenza positiva degli spiriti della natura sulla vita dei Kuba.

This helmeted mask, called Bwoom, dances during male initiation ceremonies (nkaan); they have the function of teaching initiates the history and cultural values ​​of the Kuba people and honoring the memory of Woot (the founding father and ancestor of all Kuba kings). There are different opinions on what Bwoom represents: some sources indicate that the mask represents a prince (younger brother of the king), afflicted by a neurological problem that caused the head to swell, others that it is the image of one of the original inhabitants of the region, the Twa Pygmies, others that Bwoom was created for the reigning king of the time, Miko mi-Mbul, created as an alternative to the royal mask Mwaash ambooy, to be worn by the king to cure his mental illness (hence the his local description “a person of low rank hardly worthy to be embodied by the king”). Bwoom is universally believed to be a nature spirit (ngesh; pl. mingesh) who appears to Nkaan initiates and helps to enhance the positive influence of nature spirits on the lives of the Kuba.

Giuliano Arnaldi, Onzo giugno 2023