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Dove / Where focus

” Prendete l’elmo…/ Take the helmet…”

igbo izzi
le opere esposte

«Egli si è rivestito di giustizia come di una corazza, e sul suo capo ha posto l’elmo della salvezza» (Is 59,17)

L’elmo  è insieme oggetto e metafora, e viene dalla profondità del tempo. Quello in metallo, destinato a proteggere fisicamente la testa, risale al tempo dei Sumeri ( III millennio a.C.); prima era in cuoio, o stoffa. Aegishjalmur, anche conosciuto come Elmo dell’Orrore o Elmo dell’Impavido, è l’antico simbolo a cui i Vichinghi attribuivano il potere di fornire protezione e infondere paura nei cuori dei nemici. In Italia “l’Elmo di Scipio” è metafora centrale del nostro Inno Nazionale. Noto anche come elmo di Annibale,  appartenne  al celebre comandante Publio Cornelio Scipione; fu preda di guerra del generale cartaginese Annibale nel periodo delle guerre puniche, diventando l’emblema della grande sfida tra Roma e Cartagine e finendo per rappresentare il coraggio e la forza dei guerrieri di entrambe le fazioni. L’elmo appare anche in numerose leggende, storie e racconti popolari marittimi, solitamente come uno strumento che determina il destino delle navi e dei loro equipaggi. Queste storie spesso si concentrano sul tema della lotta umana contro le forze della natura, e l’elmo rappresenta la capacità umana di influenzare il proprio destino nonostante gli ostacoli esterni. (  https://symbolopedia.com/it/helm-symbolism-meaning/ ) . 

Il valore simbolico di questo tipo di oggetto ragionevolmente deriva dal fatto che ripara la parte più fragile, misteriosa e vitale del corpo umano: la testa, il luogo fisico che ospita la parte immateriale dell’essere umano, il pensiero. Si può dire che è l’essenza identitaria di una persona, e da qui nasce  la necessità di proteggerla ed insieme di riconoscerne l’importanza vitale. L’elmo è “oltre” la maschera – che copre solo il viso – perchè altera e protegge anche le parti  meno visibili e misteriose della natura umana, tra cui il  cervello. Nella tradizione biblica la valenza metaforica dell’elmo indica la stessa direzione, facendo parte delle armi di difesa di cui Dio riveste i suoi fedeli: ; Egli riveste i suoi fedeli con elmo, scudo, corazza e spada; lo scudo protegge il cuore e la corazza il corpo ma è l’elmo che  protegge la testa, da cui provengono i pensieri. La metafora  delle armi come simboli della protezione di cui Dio riveste il credente si chiarisce e rinnova nell’Apostolo Paolo; «Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo e spegnere le frecce infuocate del Maligno» (cfr. Ef 6,11-17). Agli Efesini raccomanda di «Prendere anche l’elmo della salvezza» (cfr. Ef 6,17a). Il verbo greco significa anche  «accettare l’elmo della salvezza» implicando significativamente la necessità di accettare l’azione salvifica di Dio nell’ambito di un rapporto attivo tra Creatura e Creatore. L’elmo diventa quindi metafora di speranza, e non solo di difesa.  Sempre Paolo, nella lettera ai Tessalonicesi, afferma : «Noi invece, che apparteniamo al giorno, siamo sobri, vestiti con la corazza della fede e della carità, avendo come elmo la speranza della salvezza» (cfr. 1Ts 5,8).

La storia più approfondita dell’elmo si può trovare qui  ( https://www.treccani.it/enciclopedia/elmo/# ), ed è interessante notare che mentre i caschi militari contemporanei sono semplici dispositivi difensivi, fino all’inizio del secolo scorso essi “parlavano”, nel senso che oltre a svolgere la necessaria funzione protettiva erano arricchiti di forme, materiali o colori simbolici; l’esempio più eclatante  è l’elmo Kabuto, in uso ai Samurai Giapponesi di alto rango ( https://temizen.zenworld.eu/paginezen/approfondimenti/kabuto-funzioni-e-simboli-dell-elmo-giapponese ). Anche una semplice e sommaria ricostruzione come questa consente di cogliere la dimensione archetipale che può assumere un semplice oggetto, se posto in una logica speculativa, ma è il porsi davanti alla declinazione dell’oggetto “elmo” che fanno le culture extraeuropee – e particolarmente quelle africane – a  rendere evidente la potenza narrativa delle immagini e delle loro manifestazioni materiali. 

Le maschere a elmo che abbiamo raccolto per questa esposizione sono profondamente differenti tra loro nel linguaggio estetico. Si va dalla astrazione essenziale della maschera ad elmo  Mumuye alla potenza realistica dei caschi Bundu, ma nulla è lasciato al caso; ogni forma, colore, segno, la stessa materia usata, serve ad evocare uno stato di coscienza ed a comunicarlo, riannoda il filo perenne tra il reale e l’immaginato, l’immanente e il trascendente. Il dialogo con il nostro tempo ed il nostro mondo è affidato alla presenza di un casco usato nel gioco del Football  Americano e precisamente dai Pirates 1984: Hard but fair,  questa disciplina sportiva ha il pregio di subliminale gli istinti aggressivi indirizzandoli in un sistema di valori positivi.

Le “Teste” di Rainer Kriester sono invece la formidabile traduzione nel linguaggio dell’arte moderna di quel misterioso linguaggio archetipale che impregna le opere provenienti da Continenti lontani:  Non è un caso che il grande Maestro Tedesco,  che scelse la nostra terra come Casa dell’ Anima,  fosse così attento alle forme delle opere tradizionali Africane; chirurgo ( 1) delle forme artistiche viste attraverso i saperi  assorbiti nei giovanili studi di medicina,  Rainer osservava una maschera, una scultura, la interiorizzava d’istinto  fermandola sulla carta, grazie alla sua grande abilità di acquerellista, ne fissava gli elementi fondanti per tradurli poi nella essenzialità del suo linguaggio artistico, che risulta così insieme sorprendentemente attuale ed emergente dalla profondità del tempo. Attenzione però! I linguaggi apparentemente lontani evocati dalle  opere esposte parlano di vita e di morte, di amore e di sofferenza, parlano cioè anche di noi, e per noi. Ma bisogna volere, e sapere, vedere. 

1) L’etimologia della parola chirurgo ha le sue radici nel dal greco χειρουργός (cheirourgos), formato da χείρ (cheir) = mano e da ἔργον (ergon) = opera; il chirurgo, quindi, è colui che opera con le mani). 

una collezione di maschere ad elmo africane dialoga con una scultura di Rainer Kriester ed un casco da Football Americano...

“He has put on justice as a breastplate, and on his head he has placed the helmet of salvation” (Is 59:17)

The helmet is both an object and a metaphor, and comes from the depths of time. The metal one, intended to physically protect the head, dates back to the time of the Sumerians (3rd millennium BC); before that it was made of leather, or cloth. Aegishjalmur, also known as the Helmet of Horror or the Helmet of the Fearless, is the ancient symbol to which the Vikings attributed the power to provide protection and instill fear in the hearts of enemies. In Italy, “Scpio’s Helmet” is the central metaphor of our National Anthem. Also known as Hannibal’s helmet, it belonged to the famous commander Publius Cornelius Scipio; was a war booty of the Carthaginian general Hannibal during the Punic Wars, becoming the emblem of the great challenge between Rome and Carthage and ending up representing the courage and strength of the warriors of both factions.

The helmet also appears in numerous legends, stories and maritime folk tales, usually as an instrument that determines the fate of ships and their crews. These stories often focus on the theme of the human struggle against the forces of nature, and the helmet represents the human ability to influence one’s own destiny despite external obstacles. ( https://symbolopedia.com/it/helm-symbolism-meaning/  ) .

The symbolic value of this type of object reasonably derives from the fact that it protects the most fragile, mysterious and vital part of the human body: the head, the physical place that houses the immaterial part of the human being, thought. It can be said that it is the essence of a person’s identity, and from here comes the need to protect it and at the same time to recognize its vital importance. The helmet is “beyond” the mask – which only covers the face – because it also alters and protects the less visible and mysterious parts of human nature, including the brain.

In the biblical tradition, the metaphorical value of the helmet indicates the same direction, being part of the defensive weapons with which God clothes his faithful: He clothes his faithful with a helmet, shield, breastplate and sword; the shield protects the heart and the breastplate the body but it is the helmet that protects the head, from which thoughts come. The metaphor of the weapons as symbols of the protection with which God clothes the believer is clarified and renewed in the Apostle Paul; “Put on the full armour of God, that you may be able to resist the wiles of the devil and to extinguish the flaming arrows of the Evil One” (cf. Eph 6:11-17). He recommends to the Ephesians to “take also the helmet of salvation” (cf. Eph 6:17a). The Greek verb also means “to accept the helmet of salvation”, significantly implying the need to accept the saving action of God within an active relationship between Creature and Creator. The helmet thus becomes a metaphor for hope, and not just defense. Again Paul, in the letter to the Thessalonians, states: “But we who belong to the day, let us be sober, putting on the breastplate of faith and love, and for a helmet the hope of salvation” (see 1 Thess 5:8).

The more in-depth history of the helmet can be found here ( https://www.treccani.it/enciclopedia/elmo/# ), and it is interesting to note that while contemporary military helmets are simple defensive devices, until the beginning of the last century they “spoke”, in the sense that in addition to performing the necessary protective function they were enriched with symbolic shapes, materials or colors; the most striking example is the Kabuto helmet, used by high-ranking Japanese Samurai ( https://temizen.zenworld.eu/paginezen/approfondimenti/kabuto-funzioni-e-simboli-dell-elmo-giapponese  ).

Even a simple and summary reconstruction like this allows us to grasp the archetypal dimension that a simple object can assume, if placed in a speculative logic, but it is placing ourselves in front of the declination of the “helmet” object that non-European cultures – and particularly African ones – do that makes the narrative power of images and their material manifestations evident.

The helmet masks that we have collected for this exhibition are profoundly different from each other in aesthetic language. They range from the essential abstraction of the Mumuye helmet mask to the realistic power of the Bundu helmets, but nothing is left to chance; every shape, color, sign, the same material used, serves to evoke a state of consciousness and to communicate it, re-ties the perennial thread between the real and the imagined, the immanent and the transcendent. The dialogue with our time and our world is entrusted to the presence of a helmet used in the game of American Football, and precisely from Pirates 1984. Hard but fair,  

this sporting disciplinehas the merit of subliminalizing aggressive instincts by directing them into a system of positive values.

Rainer Kriester’s “Heads” are instead the formidable translation into the language of modern art of that mysterious archetypal language that permeates the works coming from distant continents: It is no coincidence that the great German Master, who chose our land as the Home of the Soul, was so attentive to the forms of traditional African works; a surgeon (1) of the artistic forms seen through the knowledge absorbed in his youthful medical studies, Rainer observed a mask, a sculpture, internalized it instinctively, stopping it on paper, thanks to his great skill as a watercolourist, he fixed its founding elements to then translate them into the essentiality of his artistic language, which thus appears both surprisingly current and emerging from the depths of time. But be careful! The apparently distant languages ​​evoked by the works on display speak of life and death, love and suffering, that is, they also speak of us, and for us. But you have to want, and know, to see.

1) The etymology of the word surgeon has its roots in the Greek χειρουργός (cheiourgos), formed from χείρ (cheir) = hand and ἔργον (ergon) = work; the surgeon, therefore, is he who operates with his hands).

Giuliano Arnaldi, Onzo 16 ottobre 2024

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Dove / Where focus

Un #arcipelagoculturale nel Ponente ligure /a cultural arcipelago in Western Liguria

Presentato a Villanova d’Albenga  il nuovo spazio di MAP, Museo di Arti Primarie.

Un grande spazio industriale vuoto. Pochissime opere d’arte – cinque –  provenienti da luoghi e tempi molto diversi tra loro, scelte ad esempio di quanto verrà ospitato nello spazio . Un pianoforte a coda al centro. Un musicista che fa dialogare i suoi strumenti con la eco imponente che caratterizza lo spazio, camminando tra poche persone che anch’esse si aggirano incuriosite nello spazio suggestivo e straniante. 

Enzo L’Acqua, Strutture Asimmetriche . olio su tela anno 2000. In primo piano il pianoforte Bechstein, 1922.

Così  è stato presentato domenica 22 settembre   a Coasco (Villanova d’Albenga) in località Marina Verde un nuovo spazio destinato ad ogni forma d’arte, apripista di un progetto destinato a trasformare entro il 2025 l’intero luogo ( notissimo Centro sportivo fino a qualche anno fa ) in un Polo Fieristico Museale di respiro internazionale.

“ Sugli oltre 50.000 mq di verde e spazi edificati sorgeranno in progressione spazi dedicati a musica, teatro, esposizioni d’arte, workshop in collaborazione con prestigiosi Istituti di Cultura nazionali ed internazionali. Entro dicembre 2024 cinquecento metri quadrati fino a poco tempo fa usati come magazzini diventeranno Spazio Espositivo Permanente,. Seguirà il recupero del resto dello spazio, confidando nella collaborazione attiva delle realtà pubbliche e private presenti sul territorio “ dice il giovane Presidente della Associazione MAP, Museo di Arti Primarie  Lorenzo Gaudenti,  Laureato in Scienze dei Beni Culturali presso lUniversità degli Studi di Milano e Laureato in Economia e Gestione delle Arti e delle Attività Culturali presso lUniversità Ca’ Foscari di Venezia.

La deposizione di Cristo, olio su tela cm 90,8 x 117. Italia Centrale, XVI secolo

“ LAssociazione MAP – Museo di Arti Primarie, è nata con lobiettivo di contribuire a rendere sempre più evidente  lesistenza di un  #arcipelagoculturale che rende vivo il territorio Ingauno grazie al mare di intelligenze, attività, memorie che caratterizza questa realtà da secoli. La cultura non è solo un inutile orpello, ma presidio di civiltà e motore di uneconomia sostenibile, che valorizza appartenenze e tradizioni locali, ponendole in relazione con la complessità della globalizzazione” prosegue Gaudenti, “ si avvale della #CollezioneTribaleglobale – e di altre collezioni private – per costruire eventi che per il tramite della potenza evocativa della bellezza costruiscono dialoghi destinati ad agire nel profondo; larte non è semplice decorazione, ma strumento destinato a evocare stati di coscienza legati alle grandi domande che lessere umano si pone da sempre, e le arti extraeuropee, nella loro essenzialità archetipica, risultano sorprendentemente attuali e adeguate a dialogare sia con i linguaggi tradizionali dellarte Occidentale, sia con le forme di espressione più contemporanee nate dalla nuove opportunità creative offerte dalle nuove tecnologie e dalla rivoluzione comunicativa consentita da Internet.” 

Rainer Kriester, Testa chiodata. Bronzo.
Maschera ad elmo Ngontang, Cultura Fang . Metà del XX secolo. Legno, caolino, pigmenti naturali h. cm 27. Prov. Fernandez Leventhal- NYC – e Arte Primitivo- Barcellona –

MAP è una rete di spazi espositivi esistenti da anni, e in divenire: le Case degli Artisti di Onzo e Cosio d’Arroscia, la Biblioteca Tribaleglobale di Onzo e il Parco delle Sculture di Rainer Kriester, a cui si aggiunge  oggi il  nuovo, importante e prestigioso sito di  Villanova d’Albenga. 

Lo spazio visto attraverso la Scultura Omu, Villaggio Irogo,fiume Jerei . Nord ovest Asmat . Legno policromo cm 258.
Ex Todd Barlin, ex Theodore Bruce Auction, Sidney

La presentazione è stata decisamente inusuale e suggestiva, pensata per indicare quale sarà il linguaggio espositivo scelto dagli organizzatori. Gli invitati ( artisti, operatori culturali, esponenti di Associazioni e Istituzioni ) sono entrati uno ad uno nel grande capannone che fino a poche settimane fa ospitava materiale edile, accolti dal suono del corno di Jean Duchamp, prestigioso musicista e musicologo francese che ha composto appositamente per l’evento una serie di brani intitolati “6 Echoes from Marina Verde “, caratterizzati dal dialogo tra gli strumenti musicali usati e la eco prodotta dal grande spazio vuoto; all’interno, sul lato sinistro un grande dipinto del XVI secolo posto a dialogare con un’opera in bronzo di Rainer Kriester ed una importante maschera a elmo di cultura Fang ( Gabon ) . Al centro, davanti al pianoforte a coda ( un Bechstein del 1922 posto su un antico tappeto persiano) la dimensione contemporanea delle arti visive è testimoniata da un grande trittico di Enzo L’Acqua ( Strutture Asimmetriche , cm 190 x 225, anno 2000) . Sul lato opposto dello spazio è una grande scultura del popolo Asmat  ( Papua N.G.) , 258 cm di altezza, a garantire il dialogo tra tempi e luoghi così diversi tra loro. 

“ Per tutto il mese di ottobre lo spazio ospiterà performance musicali e teatrali che  si terranno in concomitanza con le attività di ristrutturazione degli spazi, ovviamente nel rispetto delle normative di sicurezza; da qui la scelta di chiamare questo ciclo di eventi #bellezzaincantiere” dice Giuliano Arnaldi, Curatore del MAP, “ Per questo motivo non prevediamo l’apertura al pubblico, ma la trasmissione in diretta sui social network”. “

A cultural archipelago emerges in western Liguria

The new space of MAP, Museum of Primary Arts, was presented in Villanova d’Albenga.

A large empty industrial space. Very few works of art – five – from very different places and times, chosen as an example of what will be hosted in the space. A grand piano in the center. A musician who makes his instruments dialogue with the imposing echo that characterizes the space, walking among a few people who also wander curiously in the suggestive and alienating space.
This is how a new space intended for every form of art was presented on Sunday 22 September in Coasco (Villanova d’Albenga) in the Marina Verde area, a pioneer of a project destined to transform the entire place (a very well-known sports center until a few years ago) into an internationally renowned Museum and Exhibition Center by 2025.

“ On the over 50,000 square meters of greenery and built spaces, spaces dedicated to music, theater, art exhibitions, workshops will gradually arise in collaboration with prestigious national and international Cultural Institutes. By December 2024, five hundred square meters used until recently as warehouses will become a Permanent Exhibition Space. The recovery of the rest of the space will follow, trusting in the active collaboration of public and private entities present in the area ” says the young President of the MAP Association, Museum of Primary Arts Lorenzo Gaudenti, Graduated in Cultural Heritage Sciences at the University of Milan and Graduated in Economics and Management of Arts and Cultural Activities at the Ca ‘Foscari University of Venice.
” The MAP Association – Museum of Primary Arts, was born with the aim of contributing to making increasingly evident the existence of a #culturalarchipelago that brings the Ingauno territory alive thanks to the sea of ​​intelligence, activities, memories that has characterized this reality for centuries. Culture is not just a useless frill, but a bulwark of civilization and the engine of a sustainable economy, which enhances local belonging and traditions, placing them in relation to the complexity of globalization” continues Gaudenti, “it uses the #CollezioneTribaleglobale – and other private collections – to build events that through the evocative power of beauty build dialogues destined to act deeply; art is not simple decoration, but a tool intended to evoke states of consciousness linked to the great questions that human beings have always asked themselves, and the non-European arts, in their archetypal essentiality, are surprisingly current and suitable for dialoguing both with the traditional languages ​​of Western art, and with the most contemporary forms of expression born from the new creative opportunities offered by new technologies and the communication revolution allowed by the Internet.”

MAP is a network of exhibition spaces that have existed for years and are still in progress: the Artists’ Houses of Onzo and Cosio d’Arroscia, the Tribal Global Library of Onzo and the Sculpture Park of Rainer Kriester, to which the new, important and prestigious site of Villanova d’Albenga has been added today.
The presentation was decidedly unusual and suggestive, designed to indicate what the exhibition language chosen by the organizers will be. The guests (artists, cultural operators, representatives of Associations and Institutions) entered one by one into the large warehouse that until a few weeks ago housed building materials, welcomed by the sound of the horn of Jean Duchamp, a prestigious French musician and musicologist who composed a series of pieces specifically for the event entitled “6 Echoes from Marina Verde”, characterized by the dialogue between the musical instruments used and the echo produced by the large empty space; inside, on the left side a large 16th century painting placed in dialogue with a bronze work by Rainer Kriester and an important helmet mask from the Fang culture (Gabon). In the center, in front of the grand piano (a 1922 Bechstein placed on an ancient Persian carpet) the contemporary dimension of the visual arts is demonstrated by a large triptych by Enzo L’Acqua (Asymmetric Structures, 190 x 225 cm, 2000). On the opposite side of the space is a large sculpture of the Asmat people (Papua N.G.), 258 cm high, to ensure the dialogue between such different times and places.

“ Throughout the month of October the space will host musical and theatrical performances that will be held in conjunction with the renovation activities of the spaces, obviously in compliance with safety regulations; hence the choice to call this series of events #bellezzaincantiere” says Giuliano Arnaldi, Curator of the MAP, “For this reason we do not plan to open it to the public, but to broadcast it live on social networks”. “

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Dove / Where quando/ when

E’ nato il jardin situationniste / the situationist garden was born.

tra Cosio d'Arroscia e Onzo, passando per Vendone e....


Ansgar Elde, Ceramica . 1990

le opere esposte sono visibili qui https://flic.kr/s/aHBqjBENLb

Nasce nella Valle Arroscia un ” Jardin Situationniste”,  format ispirato al fortunato libro di Asger Jorn ” Le Jardin d’Albisola”. La rete di spazi espositivi organizzata dalle Associazioni MAP museo di Arti Primarie e SituaZioni Tribaliglobali ospita un insieme di eventi legati alla esperienza artistica e culturale attiva  nella seconda metà del secolo scorso nella Liguria di Ponente, tra Albisola e Cosio d’Arroscia. Tra Onzo e Cosio, dove sono già esposte in modo permanente opere di  Alechinsky, Appel, Corneille, Jorn, Vandercam,  Rainer Kriester e Henry Moore, sono visibili fino al 30 ottobre 2024 opere di  Carlos Carlè, Asgar Elde, Enzo L’Acqua e Saba Telli. Le opere d’arte moderna sono esposte in dialogo permanente con opere di arte tradizionale extraeuropea provenienti da Africa, Asia, Indonesia, Oceania . E’ possibile consultare una corposa biblioteca di settore, ed ogni evento è supportato da cataloghi consultabili anche on line. . La direzione artistica degli eventi è di Giuliano Arnaldi.

Où est le jardin.. ?

Un filo rosso mai spezzato lega la creatività di artisti che per tutto il Novecento scelsero quel triangolo magico tra Albisola, Calice Ligure e Cosio d’Arroscia come speciale casa dell’anima. Non solo i Futuristi, Lam, Fontana, Jorn – per citare i più “blasonati” – ma un popolo di creativi respirò quel soffio vitale, e diede un corpo alla propria immaginazione . La loro storia è forse ancora troppo ristretta nei confini del collezionismo locale, mentre risulterebbe di grande interesse generale  per capire cosa accadde in quegli anni, ben oltre i confini locali. La storia dei Situazionisti è in questo senso emblematica; quel vento potente partì da Cosio d’Arroscia ma incendiò prima Parigi e poi il mondo intero, prova provata che l’arte non è solo un grazioso orpello ma formidabile energia sovversiva. Nel “Jardin”  che abbiamo creato tra Cosio e Onzo, ne trovate alcuni, e ne troverete sempre più; nei limiti delle nostre possibilità l’intenzione è quella di creare dei “focus”, delle sintetiche retrospettive su singoli Artisti, senza alcuna pretesa se non quella di accendere una luce.”  L’evento è iniziato domenica 1 settembre a Onzo presso la Locanda Tribaleglobale con Saba telli, che quell’epoca la visse  con rara intensità e la testimoniò con ancor più rara bellezza, attraverso la sua vita e il suo lavoro; in consultazione anche alcuni rari cataloghi e testi legati al lavoro dell’Artista, provenienti da una collezione privata savonese, ed è in preparazione un catalogo che raccoglie la rara ed inedita documentazione;  Dal 15 settembre a Cosio d’Arroscia la galleria derive ospita una “reunion” – come usa dire oggi- di alcuni tra i più interessati manipolatori di materie di quegli anni: Carlos Carlè, Asgar Elde, Enzo L’Acqua e lo stesso Sabatelli per l’aspetto ceramico. 

A “Jardin Situationniste” is born in the Arroscia Valley, a format inspired by the successful book by Asger Jorn “Le Jardin d’Albisola”. The network of exhibition spaces organized by the Associations MAP museo di Arti Primarie and SituaZioni Tribaliglobali hosts a series of events linked to the artistic and cultural experience active in the second half of the last century in Western Liguria, between Albisola and Cosio d’Arroscia. Between Onzo and Cosio, where works by Alechinsky, Appel, Corneille, Jorn, Vandercam, Rainer Kriester and Henry Moore are already permanently exhibited, works by Carlos Carlè, Asgar Elde, Enzo L’Acqua and Saba Telli are visible until 30 October 2024. The modern works of art are exhibited in permanent dialogue with works of traditional non-European art from Africa, Asia, Indonesia, Oceania. It is possible to consult a substantial sector library, and each event is supported by catalogues that can also be consulted online. The artistic direction of the events is by Giuliano Arnaldi.

Où est le jardin.. ?

An unbroken red thread links the creativity of artists who throughout the twentieth century chose that magical triangle between Albisola, Calice Ligure and Cosio d’Arroscia as a special home for the soul. Not only the Futurists, Lam, Fontana, Jorn – to name the most “noble” – but a population of creatives breathed that vital breath, and gave a body to their imagination. Their story is perhaps still too narrow within the confines of local collecting, while it would be of great general interest to understand what happened in those years, well beyond the local borders. The story of the Situationists is emblematic in this sense; that powerful wind started from Cosio d’Arroscia but first set Paris on fire and then the entire world, proof that art is not just a pretty tinsel but a formidable subversive energy. In the “Jardin” that we have created between Cosio and Onzo, you will find some, and you will always find more; to the extent of our possibilities, the intention is to create “focuses”, synthetic retrospectives on individual Artists, without any pretension other than that of turning on a light.” The event began on Sunday 1 September in Onzo at the Locanda Tribaleglobale with Sabatelli, who lived that era with rare intensity and bore witness to it with even rarer beauty, through his life and his work; some rare catalogues and texts related to the Artist’s work, from a private collection in Savona, were also available for consultation, and a catalogue is being prepared that collects the rare and unpublished documentation; From 15 September in Cosio d’Arroscia the Derive gallery hosts a “reunion” – as they say today – of some of the most interested manipulators of materials of those years: Carlos Carlè, Asgar Elde, Enzo L’Acqua and Sabatelli himself for the ceramic aspect.

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Dove / Where

Sapere vedere, oltre la società dello spettacolo /Knowing how to see, Beyond the society of the spectacle.

Cosio d’Arroscia, casa degli artisti, sala verde. Fino al 30 settembre 2024

1. Sapere vedere. C’è un aspetto centrale ed indispensabile nell’esperienza percettiva? Se esiste è legato allo sguardo. Non mi riferisco al semplice guardare, ma a tutto ciò che implica sapere vedere. Ci si guarda dentro prima di guardare fuori, cosi come ciò che vediamo nutre il nostro essere più intimo. E spesso la realtà non è ciò che appare . 

Un corpo, un volto definiscono un carattere, lo animano rimandando ad un grumo di sensazione che nascono dalla inesorabile ed istintiva associazione di idee, conferendo   consistenza ontologica alla forma. Senza ricorrere alle esasperazioni di Lombroso si può dire che la, fisiognomica abbia un suo perché. Sono gli occhi a guardare? No, gli occhi sono strumento, e come diceva Saint-Exupéry, l’essenziale è invisibile agli occhi. 

Ma gli occhi parlano, sono lo specchio dell’anima e ci dicono chi siamo. E altrove? Nel mondo degli “altri” come si evoca la potenza dello sguardo? Uso l’espressione potenza perché lo sguardo profondo – quello alla Saint-Exupéry per intenderci – non prevede necessariamente una osservazione diretta della realtà per come si manifesta, ma per come essa agisce in noi evocando uno stato di coscienza. 

In realtà la funzione profonda non cambia: anche il realismo dell’arte occidentale funziona solo se evoca stati di coscienza, esattamente come l’alfabeto sintetico usato dai linguaggi degli artisti extraeuropei.
Ecco che le fessure di una maschera Dan o Punu, lo sguardo dipinto di un antico sapiente evocato in un dipinto del XVII secolo parlano di sentimenti che ci appartengono, che riconosciamo grazie ad un misterioso linguaggio di forma, colore e materia che dà vita ed emozione; è il risultato del lavoro dei nostri neuroni/specchio, e ci rende in un lampo consapevoli di un Mistero più grande di noi, anche se fatto su misura per noi, per essere compreso da noi, per essere usato da noi, per aiutarci a capire e governare ciò che di sorprendentemente misterioso ci accade. 

2. Oltre la società dello spettacolo. Un antico dipinto, due maschere africane, la tv Zéo  disegnata da Philippe Stark per Thomson negli anni 90 del secolo scorso, completa di telecomando. Sono questi gli elemento alfabetici usati da Giuliano Arnaldi ed Emilio Grollero per avviare un dialogo sulla differenza tra vedere e guardare, più in generale tra agire e subire nella società dello spettacolo. La vecchia tv è come si dice oggi un “pezzo di design”. Non essendoci segnale gracchia ed emette uno sfarfallio costante, efficace testimone della subalternità passiva e totale dello spettatore. Il telecomando già rimanda ad  altro; è disegnato per farci pensare d’istinto  ad una faccia, curiosamente ospitata in  una forma fallica. La potenza evocativa emerge però in modo consapevole nelle altre opere esposte, pur nella diversità degli alfabeti usati. Le antiche maschere   Punu e Dan parlano la lingua archetipale delle culture africane, che affidano all’essenzialità  il compito di evocare stati di coscienza come l’altro elemento, un talismano etiope posto al centro della stanza; rimanda ad antiche parole destinate a curare il corpo e l’anima. L’antico dipinto attribuito ad Assereto dichiara invece il proprio messaggio in modo esplicito, descrittivo, secondo la tradizione occidentale. In entrambi contesti   bisogna sapere – e volere – vedere, rifiutare il ruolo inumano di spettatori per rivendicare e praticare quello di attori. E’ il potere antico della parola – dal  latino tardo parabŏla , intesa come insegnamento, discorso -, che implica la responsabilità della scelta,  a fare la differenza tra società umana e società dello spettacolo. Prende corpo il monito scritto da Guy Debord nel 1967, e riscritto oggi sullo schermo della TV esposta da Emilio Grollero; la televisione  era agli albori e i social nemmeno immaginati: “l’intera vita della società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso cumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto, si è allontanato un una rappresentazione”.

L’installazione di Emilio Grollero

1. Knowing how to see. Is there a central and indispensable aspect in the perceptual experience? If it exists it is linked to the gaze. I’m not referring to simply looking, but to everything that involves knowing how to see. We look inside before looking outside, just as what we see nourishes our most intimate being. And often reality is not what it appears. 

A body, a face define a character, animate it by referring to a lump of sensation that arises from the inexorable and instinctive association of ideas, giving ontological consistency to the form. Without resorting to Lombroso’s exasperations, it can be said that physiognomy has its own reason. Are the eyes watching? No, the eyes are instruments, and as Saint-Exupéry said, the essential is invisible to the eyes. 

But the eyes speak, they are the mirror of the soul and tell us who we are. And elsewhere? In the world of “others” how is the power of the gaze evoked? I use the expression power because the profound gaze – that of Saint-Exupéry so to speak – does not necessarily involve a direct observation of reality as it manifests itself, but as it acts in us, evoking a state of consciousness. 

In reality, the profound function does not change: even the realism of Western art only works if it evokes states of consciousness, exactly like the synthetic alphabet used by the languages ​​of non-European artists.
Here the cracks of a Dan or Punu mask, the painted gaze of an ancient wise man evoked in a 17th century painting speak of feelings that belong to us, which we recognize thanks to a mysterious language of shape, color and matter that gives life and emotion ; it is the result of the work of our neurons/mirrors, and makes us instantly aware of a Mystery bigger than us, even if tailor-made for us, to be understood by us, to be used by us, to help us understand and govern the surprisingly mysterious things that happen to us.

2. Beyond the society of the spectacle. An ancient painting, two African masks, the Zéo TV designed by Philippe Stark for Thomson in the 90s of the last century, complete with remote control. These are the alphabetical elements used by Giuliano Arnaldi and Emilio Grollero to start a dialogue on the difference between seeing and looking, more generally between acting and suffering in the society of the spectacle. The old TV is, as they say today, a “piece of design”. Since there is no signal, it croaks and emits a constant flicker, an effective witness to the passive and total subordination of the spectator. The remote control already refers to something else; it is designed to make us instinctively think of a face, curiously housed in a phallic shape. However, the evocative power emerges consciously in the other works on display, despite the diversity of the alphabets used. The ancient Punu and Dan masks speak the archetypal language of African cultures, which entrust essentiality with the task of evoking states of consciousness like the other element, an Ethiopian talisman placed in the center of the room; refers to ancient words intended to heal the body and soul. The ancient painting attributed to Assereto instead declares its message in an explicit, descriptive way, according to Western tradition. In both contexts one must know – and want – to see, reject the inhuman role of spectators to claim and practice that of actors. It is the ancient power of the word – from the late Latin parabŏla, understood as teaching, discourse -, which implies the responsibility of choice, that makes the difference between human society and the society of the spectacle. The warning written by Guy Debord in 1967, and rewritten today on the TV screen exposed by Emilio Grollero, takes shape; television was in its infancy and social media was not even imagined: “the entire life of society, in which modern production conditions dominate, announces itself as an immense accumulation of shows. Everything that was directly experienced has receded into a representation.”

Giuliano Arnaldi, Cosio d’Arroscia 5 agosto 2024

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Dove / Where

NOMADISMO

“ L’uomo fu inizialmente nomade; oggi, assimilata la stanzialità ed a causa della mondializzazione, sta diventando “nomade” in un modo nuovo. I nomadi hanno inventato gli elementi basilari della civiltà; gli stanziali l’hanno organizzata. Chi si sposta non è detto che sia “barbaro” ma può essere una forza d’innovazione e di creazione; le società quando si chiudono agli itineranti, agli stranieri, a qualsiasi movimento, declinano. Con le nuove tecnologie del viaggio, reale o virtuale, si aprono nuovi scenari per l’umanità. Giunge a compimento l’egemonia dell’ultimo impero stanziale (gli USA), e incomincia la gara a rimpiazzarlo da parte delle tre forze nomadi di oggi: mercato, democrazia, fede”. Questo è l’incipit di un bel libro di Jaques ATTALI , L’UOMO NOMADE – SPIRALI 2006 – Pur essendo datato, nel senso che negli ultimi dieci anni i fenomeni migratori hanno assunto proporzioni e caratteristiche decisamente epocali, il testo di Attali definisce il perimetro dell’argomento. 

A noi interessa riflettere sulla dimensione estetica di quello che è il nomadismo per eccellenza, almeno nel nostro immaginario, ovvero quello che popola i deserti nord africani. Gli oggetti in uso presso quelle culture testimoniano la “ consueta” , sorprendente bellezza a cui ci hanno abituato le Arti Primarie. Nel caso dei picchetti Tuareg sono forma e segno a parlarci; quelli a forma piatta ed articolata si chiamano Ehel, sono posti all’interno delle tende per sostenere i pannelli Eseber – realizzati in fibra vegetale- e destinati a creare spazi intimi. I picchetti scolpiti a tutto tondo si chiamano  Igem,  sono posti all’esterno della tenda,  ne indicano l’ingresso e ne identificano gli abitanti .  Per i rari Burqua “Arouse” dei Rashaida è la  fantasmagoria di materiali ed oggetti usati per creare questo particolare manufatto ad evocare  antiche narrazioni.  Questi particolari veli nuziali fanno riflettere sui pregiudizi che abbiamo verso le  culture  diverse dalla nostra; essendo Burqua, istintivamente ci rimandano all’idea di oppressione e svilimento della donna; non è così, ed è sufficiente vederli per rendersene conto, apprezzandone la varietà di colori, materiali preziosi, intrecci. Non è coprire il volto o il corpo ad essere opprimente, ma essere obbligate a farlo, e c’è molto meno rispetto verso la donna nella ostentazione mercificata del nudo che si fa in occidente. 

Mentre i Touareg sono ampiamente conosciuti e per certi versi mitizzati, i Rashaida furono  l’ultima minoranza a migrare in Eritrea nel XIX secolo dalla Penisola Arabica.  I loro accampamenti sono prevalentemente presso Massawa, ed oggi possono  essere considerati i testimoni dell’unica cultura eritrea interamente nomade e di lingua araba, fortemente tradizionalista. Di carattere schivo e guerriero, storicamente  pirati e predoni , sono coloro che anticamente si occupavano  della tratta degli schiavi e che ancora oggi gestiscono operativamente il transito nel deserto dei migranti, gli schiavi del XXI secolo. 

“ Man was initially nomadic; today, having assimilated sedentary living and due to globalization, he is becoming “nomadic” in a new way. Nomads invented the basic elements of civilization; the residents organized it. Those who move are not necessarily “barbarian” but can be a force of innovation and creation; When societies close themselves to itinerants, to foreigners, to any movement, they decline. With new travel technologies, real or virtual, new scenarios are opening up for humanity. The hegemony of the last sedentary empire (the USA) comes to fruition, and the race to replace it by today’s three nomadic forces begins: market, democracy, faith”. This is the incipit of a beautiful book by Jaques ATTALI, L’UOMO NOMADE – SPIRALS 2006 – Despite being dated, in the sense that in the last ten years migratory phenomena have taken on decidedly epochal proportions and characteristics, Attali’s text defines the perimeter of the topic.

We are interested in reflecting on the aesthetic dimension of what is the nomadism par excellence, at least in our imagination, that is, that which populates the North African deserts. The objects in use in those cultures bear witness to the “usual”, surprising beauty to which the Primary Arts have accustomed us. In the case of the Tuareg pickets, it is the shape and sign that speak to us; those with a flat and articulated shape are called Ehel, they are placed inside the tents to support the Eseber panels – made of vegetable fiber – and intended to create intimate spaces. The all-round sculpted pegs are called Igem, they are placed outside the tent, they indicate the entrance and identify its inhabitants. For the rare Rashaida Burqua “Arouse” it is the phantasmagoria of materials and objects used to create this particular artefact that evokes ancient narratives. These particular wedding veils make us reflect on the prejudices we have towards cultures different from ours; being Burqua, they instinctively refer us to the idea of oppression and debasement of women; this is not the case, and it is enough to see them to realize this, appreciating the variety of colours, precious materials and weaves. It is not covering the face or the body that is oppressive, but being forced to do so, and there is much less respect towards women in the commodified ostentation of nudity that is done in the West.

While the Touareg are widely known and in some ways mythologized, the Rashaida were the last minority to migrate to Eritrea in the 19th century from the Arabian Peninsula. Their camps are mainly near Massawa, and today they can be considered the witnesses of the only entirely nomadic and Arabic-speaking, strongly traditionalist Eritrean culture. Of a shy and warrior nature, historically pirates and raiders, they are those who in ancient times dealt with the slave trade and who still today operationally manage the transit of migrants in the desert, the slaves of the 21st century. 

Giuliano ARNALDI, Onzo. 17 Maggio 2024

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Kachina.

Li abbiamo defraudati anche dei nomi. Troppo difficili da pronunciare. Così i nativi Americani sono diventati “Indiani”; i primi invasori di quelle terre , ignoranti oltre che avidi, erano convinti di essere nelle indie…Uso la prima persona plurale come incipit per questo testo  perché siamo stati proprio noi, i bianchi-occidentali-cristiani ad iniziare, perseguire  e concludere il più grande genocidio della storia dell’umanità, un genocidio plurimo. Proprio noi..il primo invasore era ligure..ed a partire dal 12 ottobre 1492 decine, ragionevolmente centinaia di culture originali, complesse  e  secolari sono state cancellate. Non sarebbe moralmente accettabile iniziare un qualunque ragionamento che riguardi i Nativi Americani senza questa premessa.

Il caso degli Hopi è esattamente dentro questi parametri. Quel popolo vive  sul vasto altipiano ribattezzato dagli invasori bianchi Black Mesa. E’ una zona desertica, che alterna rocce e sabbia fino a 2000 metri di altitudine; le temperature oscillano tra  -20 e +40 gradi. Conseguentemente gli Hopi hanno sviluppato un sistema di agricoltura adeguato che garantisca la loro sussistenza,  sfruttando ogni elemento del loro ambiente. Piantano il mais, alimento principale,  utilizzando una sorta di bastone da trapianto e scavano una buca profonda da venticinque a cinque centimetri che non rompe la superficie del terreno e impedisce l’evaporazione dell’umidità sottostante. I buchi sono molto distanziati e in ognuno di essi depositano al massimo sei semi.

Si dice che piantano un seme per il vento o per il gelo, uno per i topi, uno per i corvi e due o tre per se stessi. Si ritiene che questi semi siano un segnale al dio della germinazione in modo che ciò possa accadere . Un appezzamento di mais viene seminato in due luoghi diversi, su terreno asciutto dove possono verificarsi inondazioni. Pertanto, se un appezzamento viene spazzato via da un’inondazione, l’altro può essere salvato. Se però non piove, spesso nel sottosuolo rimane abbastanza umidità residua per produrre un piccolo raccolto.

Chi coltiva ha bisogno di ogni aiuto possibile per vivere in questo ambiente. Per questo gli Hopi invocano il  mondo degli spiriti messaggeri, i Kachina, che trasmettono le loro preghiere alle divinità. Sono gli uomini ad occuparsene,  insieme ad ogni aspetto connesso alla agricoltura e alla guerra, intese nella loro dimensione religiosa. Sono però le donne a possedere la terra, la responsabilità della famiglia ed ogni forma di autorità. Si può dire che esse sono la fonte, il nucleo della vita Hopi,  a cui gli uomini devono fornire  sostentamento e protezione. Profondamente convinti che ogni cosa –  animali, piante umani, spiriti, vivi o morti   – sia strettamente correlata e reciprocamente dipendente, gli Hopi hanno creato un sistema ordinato di comportamenti, precisamente stabiliti indipendentemente dall’età. Il mondo soprannaturale è speculare a quello reale , anche se popolato da divinità, semidei, Kachina, mostri e antenati, e le loro vite rispecchiano quelle degli Hopi, sebbene abbiano il potere di controllare ogni aspetto dell’ambiente.

I Kachina prendono forma e vita attraverso i danzatori, protagonisti dei diversi riti che scandiscono il ciclo rituale della Comunità, e si riconoscono in relazione alle maschere che indossano, al costume ed al particolare tipo di movimento che fanno. Sono scolpiti anche sotto forma di bambole, chiamate Tihu, strumento mnemonico rivolto ai più giovani e destinato a tramandare  la visione del mondo HOPI. Il legno usato è il pioppo americano, la forma è cambiata nel corso dei decenni; nelle più antiche, anteriori al 1870, gli arti sono abbozzati direttamente dal tronco, in seguito si iniziò a realizzare braccia articolate che meglio rispecchiassero i movimenti del ballerini. I colori hanno valore simbolico,  riferito ai punti cardinali: giallo per il nord, blu-verde per l’ovest, rosso per il sud, bianco per l’est. Il nero raffigura lo zenit, l’insieme di colori o il grigio il nadir. I diversi toni e i simboli rimandano alle appartenenze claniche ed a specifiche funzioni. 

Xavier Mérigot per Esprit Kachina

Sono stati i Surrealisti, ed in particolare Andrè Breton, i primi a comprendere la potenza evocativa di questi oggetti ed a farli conoscere. Rimando al testo di Pierre Amrouche “ Kachina and Surrealism” pubblicato in “Esprit Kachina” ( Galerie Flack, Parigi 2003, testo di riferimento fondamentale per approfondire la conoscenza di queste formidabili sculture. 

We even cheated them of their names. Too difficult to pronounce. Thus Native Americans became “Indians”; the first invaders of those lands, ignorant as well as greedy, were convinced that they were in the Indies…I use the first person plural as an incipit for this text because it was we, the white-Western-Christians who started, pursued and concluded the greatest genocide in the history of humanity, a multiple genocide. Just us… the first invader was Ligurian… and starting from 12 October 1492 dozens, reasonably hundreds of original, complex and centuries-old cultures were erased. It would not be morally acceptable to begin any argument regarding Native Americans without this premise.

The case of the Hopi is exactly within these parameters. Those people live on the vast plateau renamed Black Mesa by the white invaders. It is a desert area, which alternates rocks and sand up to 2000 meters above sea level; temperatures fluctuate between -20 and +40 degrees. Consequently, the Hopi have developed an adequate agricultural system that guarantees their subsistence, exploiting every element of their environment. They plant corn, the main food, using a sort of transplanting stick and dig a hole twenty-five to five centimeters deep that does not break the surface of the soil and prevents the evaporation of the underlying moisture. The holes are widely spaced and a maximum of six seeds are deposited in each of them.

It is said that they plant one seed for wind or frost, one for mice, one for crows, and two or three for themselves. It is believed that these seeds are a signal to the god of germination so that a particular species of corn can germinate in this place. A plot of corn is planted in two different locations, on dry soil where flooding can occur. Therefore, if one plot is washed away by a flood, the other can be saved. However, if it doesn’t rain, there is often enough residual moisture left underground to produce a small crop.

Farmers need all the help they can get to live in this environment. For this reason the Hopi invoke the world of messenger spirits, the Kachina, who transmit their prayers to the deities. It is men who deal with it, together with every aspect connected to agriculture and war, understood in their religious dimension. However, it is women who own the land, the responsibility of the family and every form of authority. It can be said that they are the source, the nucleus of Hopi life, to which men must provide sustenance and protection. Deeply convinced that everything – animals, plants, humans, spirits, living or dead – is closely related and mutually dependent, the Hopi have created an ordered system of behaviors, precisely established regardless of age. The supernatural world is a mirror image of the real one, although populated by deities, demigods, Kachina, monsters and ancestors, and their lives mirror those of the Hopi, although they have the power to control every aspect of the environment.

The Kachina take shape and life through the dancers, protagonists of the various rites that mark the ritual cycle of the Community, and are recognized in relation to the masks they wear, the costume and the particular type of movement they make. They are also sculpted in the form of dolls, called Tihu, a mnemonic tool aimed at younger people and intended to pass on the HOPI worldview. The wood used is American poplar, the shape has changed over the decades; in the oldest ones, prior to 1870, the limbs are sketched directly from the trunk, later they began to create articulated arms that better reflected the movements of the dancers. The colors have symbolic value, referring to the cardinal points: yellow for the north, blue-green for the west, red for the south, white for the east. Black represents the zenith, the set of colors or gray the nadir. The different tones and symbols refer to clan memberships and specific functions.

It was the Surrealists, and in particular Andrè Breton, who were the first to understand the evocative power of these objects and make them known. I refer to Pierre Amrouche’s text “Kachina and Surrealism” published in “Esprit Kachina” (Galerie Flack, Paris 2003, a fundamental reference text for deepening knowledge of these formidable sculptures.

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i dischi labiali Mursi: quando la sofferenza significa bellezza e potere.

disco labiale Dhebi, cultura Mursi, Etiopia. Terracotta cm 11 x 1,8. Prov. John Van Doren

L’antropologa Shauna LaTosky, parlando alle ragazze Mursi, disse che “non c’è gran differenza nel doversi mostrare alle feste danzanti col tacco 12, oppure portare un piattello labiale della stessa misura durante i duelli donga “ (cerimonie rituali durante le quali i maschi si misurano a colpi di bastone). E che dire della chirurgia plastica,  conseguenza di un fenomeno poco considerato ma dilagante, ovvero il body fascism, l’intolleranza verso coloro i cui corpi non si conformano a una particolare visione di ciò che è desiderabile? Pare che in ogni cultura scatti la trappola di modelli di bellezza impossibili da raggiungere senza farsi male.

Il caso delle donne Mursi è più complesso. I Mursi sono una popolo di circa dodicimila persone, appartenente al più vasto gruppo dei Surma, sono agricoltori e pastori e vivono nell’Etiopia meridionale tra i fiumi Amo e Mago. Intanto il loro mito d’origine sostiene che in principio non ci fossero uomini, ma solo donne;  capitò che una ragazza raccolse un corpo che galleggiava sul fiume, dentro un’arnia di corteccia, e lo nascose nella sua capanna. Era un ragazzo, e appena divenne uomo, la mise incinta. Con il crescere della pancia crebbe la curiosità delle altre donne, a cui la ragazza rispose«Ho cotto e mangiato la terra di un termitaio e inserito nella vagina una gususi (la mordace formica legionaria Aenictus hamifer,)». Pare che altre ragazze provarono la tecnica indicata, senza successo… ma è interessante notare il fatto che terra e dolore siano elementi imprescindibili nella antropopopoiesi (1) dei Mursi, ovvero quel processo che in antropologia definisce la formazione dell’uomo-sociale, con particolare riferimento  alla modificazione del corpo fisico:  Fin  dall’antichità l’essere umano ha considerato imperfetto il proprio corpo, e vissuto questa imperfezione come un limite rispetto alle proprie aspettative,  sopratutto in termini di relazione sociale; conseguentemente ha sentito l’esigenza di porre il corpo  dentro una visione del mondo che consentisse di elaborare risposte alle grandi domande dell’esistenza , creando quella che chiamiamo cultura. 

Veniamo quindi al Dhebi, il piattello labiale indossato dalle ragazze Mursi in attesa di sposarsi . E’ un disco in terracotta – in casi rari in legno – normalmente misura tra i 10 e 12 cm, è spesso poco più di un centimetro e pesa oltre 150 gr. Viene inserito nel labbro inferiore alla fine di un percorso che dura circa tre mesi ed inizia con  l’incisione del labbro, effettuata dalla madre o da un’altra donna della comunità. Viene inserito un pezzetto di legno fino a che la ferita – dolorosissima! – non si è cicatrizzata. A quel punto la ragazza provvederà ad allargare il foro sempre di più fino a raggiungere la dimensione desiderata, normalmente circa 12 cm

Ovviamente è necessario sfilalo per bere e mangiare, ed è particolarmente ingombrante. Ma è l’elemento più significativo nel percorso di seduzione. Il mento oscilla avanti e indietro in modo sensuale, generando un suono sottile che  i  Mursi chiamano zes zes. E’ un risultato che si ottiene al prezzo di grandi sofferenze; le dimensioni del disco obbligano a rimovere gli incisivi inferiori con una lama affilata, e non si deve piangere. E’ probabile che questo rito sia una feroce metafora della capacità di affrontare le difficoltà della vita, e che quindi  deformità e dolore siano fine,  e non mezzo. In genere le mutilazioni femminili sono fatte per assecondare gli uomini, ma sono fortemente volute e perpetrate dalle donne.  E’ ragionevole ritenere che, almeno in questo caso, siano un modo dolorosamente concreto per affermare una forza esistenziale che il maschio non può sottovalutare. La vita di questi oggetti è legata alla loro funzione: è indossato sempre quando si cerca marito, in cerimonie pubbliche particolarmente rilevanti nel caso di giovani spose, e gettato in caso di morte dello sposo. 

La suggestione contemporanea di questi oggetti è palese. Sembrano dipinti da un Artista Contemporaneo,  rigorosi nella loro armonia formale che rimanda certamente ad un “ codice” , ma è non  semplice leggerli, decodificare il significato di forme e colori dipinti sul disco; Secondo Alberto Salza (africarivista.it) certamente ne esistono almeno tre tipi in terracotta:  “ rosso (dhebi a golonya), marrone (a luluma), nero (a korra) e creta naturale (a holla, “bianco”). I piattelli rossi, coperti dalla corteccia profumata di un albero di foresta, si ottengono sui carboni ardenti. I piattelli “bianchi” sono in terracotta, ma non sfregati con l’erba, che tinge di nero; il bruno si ottiene dalla combustione di una pianta medicinale che aiuta la cicatrizzazione delle ferite. Oltre a quelli in terracotta, esistono i rari piattelli di legno (burgui), fatti esclusivamente dagli uomini mursi. “ 

  1. Personalmente mi affascina il fatto che termine ‘antropopòiesi’ sia costruito sulle due parole greche anthropos, ‘essere umano’, e poiesis, che significa ‘costruzione’, ma anche ‘composizione poetica’.
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Dove / Where quando/ when

FURORE! La furia di Virabhadra parte da Onzo…

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FURORE! è il titolo scelto per presentare una importante collezione di placche in bronzo Hindu databili tra il XVII E IL XIX secolo raffiguranti il mito di Virabhadra, e provenienti dalla Collezione di Paola e Giuseppe Berger. Nell’imponente Pantheon  induista la figura di VIrabhadra giganteggia; egli distrugge, perché “la pazienza, troppo spesso messa alla prova, diventa furore. (Publilio Siro)”,  perché ad un certo punto il nuovo ed il giusto si fanno  strada solo sovvertendo, demolendo, senza alcuna remora e senza alcuna pietà. E’ il furore per eccellenza, quello di Virabhadra, ovvero la reincarnazione guerriera di Shiva. Presentato in anteprima a Onzo, presso la Casa degli Artisti, sarà uno degli eventi destinato a girare l’Europa in occasione di TRIBALEGLOBALE 24, Pensiamo Immagini, l’insieme di manifestazioni organizzate dalla Associazione SituAzioni Tribaliglobali per celebrare i vent’anni di Tribaleglobale. 

In esposizione novanta placche in metalli diversi – rame, ottone, bronzo – provenienti dalla Collezione dei milanesi Giuseppe e Paola Berger.

Abbiamo da tempo il privilegio di esporre oggetti provenienti da questa importante collezione, prevalentemente riguardante le culture Indiane; nota per la qualità delle opere, la collezione è presente in importati spazi museali pubblici come il Museo Pigorini di Roma ( a cui la Famiglia Berger ha donato oltre mille oggetti “BETEL” ) e la Biblioteca Ambrosiana di Milano, a cui Paola e Giuseppe Berger donarono parte della collezione di placche VIRABHADRA . Grazie alla disponibilità degli eredi di Giuseppe Berger, possiamo oggi esporne la restante parte, quella più  più intima e privata. 

ICONOGRAFIA

Le placche, databili tra il XVII E IL XIX secolo, sono realizzate in metalli diversi, mediante fusione a cera persa o a sbalzo. Ganci ed  anelli indicano l’uso di appenderle nei tempietti di famiglia, la presenza di un manico sul retro che ne consente l’impugnatura rimanda invece ad un uso cerimoniale. Sostanzialmente si conoscono due stili: uno più accurato nel dettaglio, definito aulico, l’altro più essenziale, conosciuto come tribale. La struttura ad arco evoca l’alone di luce che accompagna l’apparizione di un essere divino; dall’alto verso il basso possiamo trovare   al centro un mascherone leonino, ai lati il sole e la luna, il linga yoni, che simboleggia l’unione tra il dio e la dea,  e il toro Nandi, simbolo della cavalcatura di Shiva oppure  Il cobra , singolo o policefalo ma sempre in numero dispari; il volto di Virabhadra è sempre rappresentato come irato e feroce,   il terzo occhio e/o i tre segni sulla fronte indicano la devozione a Shiva. Le braccia possono essere fino a dieci, ed impugnano armi e simboli diversi. In basso, ai lati, si trovano abitualmente Daksa, rappresentato con la testa del montone,  e Sati, manifestazione serena della moglie di Shiva,  o Kali , la sua declinazione terrifica.

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Togu na, la Casa parla/ Togu na, the house speaks

La Casa della Parola dei Dogon parla fin dal modo in cui è fatta ed è posizionata…
The Dogon House of the Word speaks from its forms, and position…

E’ raro che da questa parte del mondo gli spazi abitativi comuni ( villaggi, città quartieri, città..) siano stati progettati secondo una visione che vada oltre le necessità funzionali. C’è stata nel passato  una attenzione agli elementi naturali ( luce, presenza dell’acqua, venti.. ) e nel caso degli edifici di culto un orientamento rispetto al sorgere del sole, ma non pare ci sia stato  interesse verso elementi più trascendenti.

Non è certamente il caso delle culture che ci ostiniamo a definire ”primitive.” I popoli Pigmei della foresta dell’Ituri, ad esempio, smontano e rimontano le loro semplici capanne secondo un preciso schema valoriate prima che funzionale, i Dogon del Mali orientano i loro villaggi secondo criteri ben precisi, da nord a sud, dando loro una forma “urbanistica” che ricordi un uomo supino, potremmo dire sdraiato per guardare le Stelle. La testa di questo uomo immaginato ( o meglio evocato) è il Togu na. Togu significa riparo, na significa madre. Il Togu na è quindi il Grande Riparo, Madre Riparo. i Dogon lo indicano anche come “Casa della Parola” (la parola pronunciata nel togu na assume valori ed importanza che la differenziano da ogni altra) Sede specifica della parola “seduta”, calma e ponderata, è il centro nel quale si assumono le decisioni che governano il villaggio. La forma rimanda al  riparo dove si riunirono gli otto antenati primordiali, ciascuno dei quali è identificato con un pilastro, spesso scolpiti con immagini antropozoomorfe. L’impianto ideale del Togu na è rettangolare, orientato secondo i punti cardinali, ma vi  sono numerose  varianti sia nella forma che nei materiali. In generale si tratta di una bassa costruzione definita da tre file di pilastri lignei o in pietra, e da una travatura che sostiene  una copertura fatta di strati sovrapposti di materiale vegetale, normalmente steli di miglio,  con la funzione pratica di riparare efficacemente dal sole senza impedire la ventilazione. Che ogni elemento di quella cultura, compresi quelli materiali,  sia destinato a parlare, lo dicono le caratteristiche  comuni ad ogni Togu Na.  Le dimensioni sono sempre tali da permettere che la parola espressa in tono calmo e normale possa raggiungere chiunque sieda sotto al grande riparo e l’altezza dello spazio utile interno è sempre ridottissima, al fine di impedire  alla persona  di rimanere in piedi. Si può veramente dire che la Casa della Parola parla fin dal suo modo di essere! Anche la presenza  pressoché costante di un grande fico nelle immediate vicinanze del Togu na ha una funzione sia pratica che simbolica: serve insieme ad individuare facilmente il luogo anche da lontano, ed evoca un antico proverbio Dogon, “ l’ombra del fico è come il riparo della parola”.

It is rare that in this part of the world common living spaces (villages, cities, neighborhoods, cities…) have been designed according to a vision that goes beyond functional needs. In the past there has been attention to natural elements (light, presence of water, winds…) and in the case of buildings of worship an orientation towards the rising of the sun, but there does not seem to have been an interest in more transcendent elements.

This is certainly not the case with cultures that we persist in defining as “primitive.” The Pygmy people of the Ituri forest, for example, dismantle and reassemble their simple huts according to a precise scheme that values ​​rather than functions, the Dogon of Mali orient their villages according to very specific criteria, from north to south, giving them a shape “urban planning” that recalls a supine man, we could say lying down to look at the Stars. The head of this imagined (or rather evoked) man is the Togu na. Togu means shelter, na means mother. The Togu na is therefore the Great Shelter, Mother Shelter. the Dogon also indicate it as the “House of the Word” (the word pronounced in the togu na takes on values ​​and importance that differentiate it from any other) Specific seat of the word “sitting”, calm and thoughtful, is the center in which decisions are made who govern the village. The shape refers to the shelter where the eight primordial ancestors gathered, each of which is identified with a pillar, often carved with anthropozoomorphic images.

The ideal layout of the Togu na is rectangular, oriented according to the cardinal points, but there are numerous variations in both shape and materials. In general it is a low construction defined by three rows of wooden or stone pillars, and by a beam that supports a covering made of overlapping layers of plant material, normally millet stems, with the practical function of effectively protecting from the sun without prevent ventilation. The characteristics common to each Togu Na say that every element of that culture, including the material ones, is destined to speak. The dimensions are always such as to allow the word expressed in a calm and normal tone to reach anyone sitting under the large shelter and the height of the internal useful space is always very low, in order to prevent the person from remaining standing. It can truly be said that the House of the Word speaks from its way of being! Even the almost constant presence of a large fig tree in the immediate vicinity of the Togu na has both a practical and symbolic function: it serves both to easily identify the place even from afar, and evokes an ancient Dogon proverb, “the shadow of the fig tree is like the shelter of the word”.

Giuliano Arnaldi, Onzo 24 settembre 2024

le foto sono tratte da Togu Na, Spini – Electa 1976

palo di Togu na, Collezione Tribaleglobale pro. G.F.Scanzi cm 206

Palo di Togu na Collezione Tribaleglobale cm 169 prov. G.F.Scanzi

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COMBS /„Tutti i nodi vengono al pettine. Quando c’è il pettine.“

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Per la presentazione della nostra collezione di pettini ho scelto una frase di Leonardo Sciascia; definisce in modo caustico ed essenziale l’importanza che riconosciamo a questo piccolo oggetto d’uso quotidiano, ne svela il profondo significato simbolico e concettuale.  Come nasce un pensiero, o meglio, come nasce il pensiero, come si evolve fino a diventare un sistema complesso ed articolato che diventa cultura? Si può certamente dire che fino dall’antichità più remota l’osservazione di gesti istintivi fondamentali per la sopravvivenza , l’interiorizzazione del loro manifestarsi che ne qualifica l’utilità funzionale, sono l’insieme fondante del processo di conoscenza . Osservare, comprendere, astrarre e concettualizzare una esperienza ponendola in relazione ad altre, rende quella esperienza patrimonio culturale. E l’essere umano è sempre partito dal proprio corpo, dal modo in cui esso si fa strumento per governare il mondo circostante fin dalle azioni più semplici. 

Pensate alla mano, primo strumento che districa i peli incolti del primate ( e poi dell’uomo), che lo aiuta ad aprirsi un varco nella radura. Probabilmente il primo pettine è nato così, realizzato da qualcuno che osservò la propria mano e la riprodusse nella forma, che parte spessa e solida per dipanarsi in una serie di elementi appuntiti. Come la   mano districa i capelli, apre la strada nella foresta, i denti del pettine mettono ordine nei capelli e li liberano da parassiti. E non deve essere un caso che gli elementi terminali del pettine siano chiamati da sempre denti. 

I pettini presentati in questa pubblicazione provengono da aree geografiche e culturali profondamente diverse tra loro. Africa, Oceania e Indonesia, India. il linguaggio estetico, i materiali usati, i riferimenti simbolici ne dichiarano l’appartenenza culturale e geografica, ma  hanno origine comune.

Osserva Donatella Dolcini, Professore Ordinario di Lingua Hindi e Cultura Indiana presso Università Statale Milano (UNIMI) nel catalogo che presentò la collezione di pettini raccolta da Giuseppe Berger : “Al pari di dita/unghie, anche i denti svolgono una funzione di primaria importanza nel ritmo quotidiano della vita dell’uomo, permettendogli di incidere il cibo così da ridurlo immediatamente da un complesso unico e coeso – difficile da inghiottire, grande o piccolo che sia – a uno almeno grossolanamente parcellizzato. In sostanza, una variante del gioco delle dita che dividono un unico blocco in porzioni (strisce) più minute e agevoli da gestire. E infine l’elaborazione del pettine, dal mero uso primario, direttamente disceso dall’analogia con la mano, a quello mediato dalla dentatura, giunge a quel terzo stadio, immancabile nei processi di manifattura dell’uomo, che è il lato estetico. La mano-pettine, che in seconda battuta aveva incorporato anche l’imitazione della funzione dentaria, diventa alla fine un oggetto ancora più evoluto, in cui si manifesta non più solo la concreta estensione tecnologica di organi naturali, ma anche il libero apporto della creatività umana. Così la forma del pettine si abbellisce con l’eventuale aggiunta di un manico più o meno elaborato e di ghirigori che vanno ad impreziosire l’impugnatura, e modifica la propria misura fino a diventare il pettinino, un grazioso e aggraziato complemento della toilette e dell’abbigliamento soprattutto femminile.“ 

Il valore insieme semplice e profondo di questo tipo di oggetti è sorprendente, manifesta in modo netto la capacità umana di elaborare esperienze e migliorarle costantemente mediante un perfezionamento tecno logico che non è prodotto da macchine ma dall’ingegno. Ed è altrettanto sorprendente la necessità di rendere l’oggetto non solo funzionale ma anche bello, caricandolo di contenuti simbolici evocativi che spesso sono destinati ad amplificarne metaforicamente la funzione. Nei pettini delle culture Ivoriane, in gran parte raccolte da Giovanni Franco Scanzi negli anni sessanta del secolo scorso, l’elemento identitario è evidente. Le forme rimandano a figure di Antenati Ancestrali, oggetti sacri, animali il cui potere energetico, per il tramite dell’oggetti, potrà aiutare chi lo usa.  Nel caso degli antichi pettini in avorio provenienti dalla Collezione Berger, in gran parte “scritti” con la figura di Ganesh, sempre Dolcini nota giustamente “Forse la ricorrente iconografia sul pettinino del dio elefante (Ganesh appunto) potrebbe collegarsi all’immagine simbolica che la capacità del pachiderma a farsi largo nella fitta vegetazione della giungla, penetrandovi dentro, suscita riguardo al figlio di Shiva, adorato infatti anche come rimovitore degli ostacoli.

For the presentation of our collection of combs I chose a phrase from the Sicilian writer Leonardo Sciascia; defines in a caustic and essential way the importance we recognize in this small object of everyday use, revealing its profound symbolic and conceptual meaning.

How does a thought arise, or rather, how does thought arise, how does it evolve to become a complex and articulated system that becomes culture? It can certainly be said that the observation of instinctive gestures fundamental for survival since the most remote antiquity, the internalization of their manifestation, the fundamental elements that qualify their functional usefulness are the founding whole of the knowledge process. Observing, understanding, abstracting and conceptualizing an experience by placing it in relation to others makes that experience cultural heritage. And the human being has always started from his own body, from the way in which it becomes an instrument to govern the surrounding world starting from the simplest actions.

Think of the hand, the first tool that untangles the unkempt hair of the primate (and then of man), which helps him to open a path in the clearing. The first comb was probably born like this, made by someone who observed his own hand and reproduced its shape, which starts out thick and solid and then unravels into a series of pointed elements. As the hand untangles the hair, opens the way in the forest, the teeth of the comb tidy up the hair and free it from parasites. And it must not be a coincidence that the terminal elements of the comb have always been called teeth. The combs presented in this publication come from profoundly different geographical and cultural areas. Africa, Oceania and Indonesia, India. the aesthetic language, the materials used, the symbolic references declare their cultural and geographical belonging, but they have a common origin.

Donatella Dolcini, Full Professor of Hindi Language and Indian Culture at the Milan State University (UNIMI) observes in the catalog that presented the collection of combs collected by Giuseppe Berger: “Like fingers/nails, teeth also perform a function of primary importance in daily rhythm of man’s life, allowing him to affect food so as to immediately reduce it from a single and cohesive complex – difficult to swallow, large or small – to one that is at least roughly fragmented. In essence, a variant of the game of fingers that divide a single block into smaller and easier to manage portions (strips). And finally the development of the comb, from the mere primary use, directly descended from the analogy with the hand, to that mediated by the teeth, reaches that third stage, inevitable in man’s manufacturing processes, which is the aesthetic side. The hand-comb, which subsequently also incorporated the imitation of the dental function, ultimately becomes an even more evolved object, in which not only the concrete technological extension of natural organs is manifested, but also the free contribution of creativity Human. Thus the shape of the comb is embellished with the possible addition of a more or less elaborate handle and curlicues that embellish the handle, and changes its size until it becomes the comb, a graceful and graceful complement to the toilet and the ‘especially women’s clothing.“

The simple and profound value of this type of object is surprising, it clearly demonstrates the human ability to process experiences and constantly improve them through technological improvement that is not produced by machines but by ingenuity. And equally surprising is the need to make the object not only functional but also beautiful, loading it with evocative symbolic contents which are often intended to metaphorically amplify its function.

In the combs of the Ivorian cultures, largely collected by Giovanni Franco Scanzi in the sixties of the last century, the element of identity is evident. The shapes refer to figures of Ancestral Ancestors, sacred objects, animals whose energetic power, through the objects, can help those who use it. In the case of the ancient ivory combs from the Berger Collection, largely “written” with the figure of Ganesh, Dolcini rightly notes “Perhaps the recurring iconography on the comb of the elephant god (Ganesh precisely) could be connected to the symbolic image that the pachyderm’s ability to make its way through the dense vegetation of the jungle, penetrating it, arouses respect for the son of Shiva, who is also worshiped as a remover of obstacles.“

Giuliano Arnaldi, Onzo 21 settembre 2023