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Sapere vedere, oltre la società dello spettacolo /Knowing how to see, Beyond the society of the spectacle.

Cosio d’Arroscia, casa degli artisti, sala verde. Fino al 30 settembre 2024

1. Sapere vedere. C’è un aspetto centrale ed indispensabile nell’esperienza percettiva? Se esiste è legato allo sguardo. Non mi riferisco al semplice guardare, ma a tutto ciò che implica sapere vedere. Ci si guarda dentro prima di guardare fuori, cosi come ciò che vediamo nutre il nostro essere più intimo. E spesso la realtà non è ciò che appare . 

Un corpo, un volto definiscono un carattere, lo animano rimandando ad un grumo di sensazione che nascono dalla inesorabile ed istintiva associazione di idee, conferendo   consistenza ontologica alla forma. Senza ricorrere alle esasperazioni di Lombroso si può dire che la, fisiognomica abbia un suo perché. Sono gli occhi a guardare? No, gli occhi sono strumento, e come diceva Saint-Exupéry, l’essenziale è invisibile agli occhi. 

Ma gli occhi parlano, sono lo specchio dell’anima e ci dicono chi siamo. E altrove? Nel mondo degli “altri” come si evoca la potenza dello sguardo? Uso l’espressione potenza perché lo sguardo profondo – quello alla Saint-Exupéry per intenderci – non prevede necessariamente una osservazione diretta della realtà per come si manifesta, ma per come essa agisce in noi evocando uno stato di coscienza. 

In realtà la funzione profonda non cambia: anche il realismo dell’arte occidentale funziona solo se evoca stati di coscienza, esattamente come l’alfabeto sintetico usato dai linguaggi degli artisti extraeuropei.
Ecco che le fessure di una maschera Dan o Punu, lo sguardo dipinto di un antico sapiente evocato in un dipinto del XVII secolo parlano di sentimenti che ci appartengono, che riconosciamo grazie ad un misterioso linguaggio di forma, colore e materia che dà vita ed emozione; è il risultato del lavoro dei nostri neuroni/specchio, e ci rende in un lampo consapevoli di un Mistero più grande di noi, anche se fatto su misura per noi, per essere compreso da noi, per essere usato da noi, per aiutarci a capire e governare ciò che di sorprendentemente misterioso ci accade. 

2. Oltre la società dello spettacolo. Un antico dipinto, due maschere africane, la tv Zéo  disegnata da Philippe Stark per Thomson negli anni 90 del secolo scorso, completa di telecomando. Sono questi gli elemento alfabetici usati da Giuliano Arnaldi ed Emilio Grollero per avviare un dialogo sulla differenza tra vedere e guardare, più in generale tra agire e subire nella società dello spettacolo. La vecchia tv è come si dice oggi un “pezzo di design”. Non essendoci segnale gracchia ed emette uno sfarfallio costante, efficace testimone della subalternità passiva e totale dello spettatore. Il telecomando già rimanda ad  altro; è disegnato per farci pensare d’istinto  ad una faccia, curiosamente ospitata in  una forma fallica. La potenza evocativa emerge però in modo consapevole nelle altre opere esposte, pur nella diversità degli alfabeti usati. Le antiche maschere   Punu e Dan parlano la lingua archetipale delle culture africane, che affidano all’essenzialità  il compito di evocare stati di coscienza come l’altro elemento, un talismano etiope posto al centro della stanza; rimanda ad antiche parole destinate a curare il corpo e l’anima. L’antico dipinto attribuito ad Assereto dichiara invece il proprio messaggio in modo esplicito, descrittivo, secondo la tradizione occidentale. In entrambi contesti   bisogna sapere – e volere – vedere, rifiutare il ruolo inumano di spettatori per rivendicare e praticare quello di attori. E’ il potere antico della parola – dal  latino tardo parabŏla , intesa come insegnamento, discorso -, che implica la responsabilità della scelta,  a fare la differenza tra società umana e società dello spettacolo. Prende corpo il monito scritto da Guy Debord nel 1967, e riscritto oggi sullo schermo della TV esposta da Emilio Grollero; la televisione  era agli albori e i social nemmeno immaginati: “l’intera vita della società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso cumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto, si è allontanato un una rappresentazione”.

L’installazione di Emilio Grollero

1. Knowing how to see. Is there a central and indispensable aspect in the perceptual experience? If it exists it is linked to the gaze. I’m not referring to simply looking, but to everything that involves knowing how to see. We look inside before looking outside, just as what we see nourishes our most intimate being. And often reality is not what it appears. 

A body, a face define a character, animate it by referring to a lump of sensation that arises from the inexorable and instinctive association of ideas, giving ontological consistency to the form. Without resorting to Lombroso’s exasperations, it can be said that physiognomy has its own reason. Are the eyes watching? No, the eyes are instruments, and as Saint-Exupéry said, the essential is invisible to the eyes. 

But the eyes speak, they are the mirror of the soul and tell us who we are. And elsewhere? In the world of “others” how is the power of the gaze evoked? I use the expression power because the profound gaze – that of Saint-Exupéry so to speak – does not necessarily involve a direct observation of reality as it manifests itself, but as it acts in us, evoking a state of consciousness. 

In reality, the profound function does not change: even the realism of Western art only works if it evokes states of consciousness, exactly like the synthetic alphabet used by the languages ​​of non-European artists.
Here the cracks of a Dan or Punu mask, the painted gaze of an ancient wise man evoked in a 17th century painting speak of feelings that belong to us, which we recognize thanks to a mysterious language of shape, color and matter that gives life and emotion ; it is the result of the work of our neurons/mirrors, and makes us instantly aware of a Mystery bigger than us, even if tailor-made for us, to be understood by us, to be used by us, to help us understand and govern the surprisingly mysterious things that happen to us.

2. Beyond the society of the spectacle. An ancient painting, two African masks, the Zéo TV designed by Philippe Stark for Thomson in the 90s of the last century, complete with remote control. These are the alphabetical elements used by Giuliano Arnaldi and Emilio Grollero to start a dialogue on the difference between seeing and looking, more generally between acting and suffering in the society of the spectacle. The old TV is, as they say today, a “piece of design”. Since there is no signal, it croaks and emits a constant flicker, an effective witness to the passive and total subordination of the spectator. The remote control already refers to something else; it is designed to make us instinctively think of a face, curiously housed in a phallic shape. However, the evocative power emerges consciously in the other works on display, despite the diversity of the alphabets used. The ancient Punu and Dan masks speak the archetypal language of African cultures, which entrust essentiality with the task of evoking states of consciousness like the other element, an Ethiopian talisman placed in the center of the room; refers to ancient words intended to heal the body and soul. The ancient painting attributed to Assereto instead declares its message in an explicit, descriptive way, according to Western tradition. In both contexts one must know – and want – to see, reject the inhuman role of spectators to claim and practice that of actors. It is the ancient power of the word – from the late Latin parabŏla, understood as teaching, discourse -, which implies the responsibility of choice, that makes the difference between human society and the society of the spectacle. The warning written by Guy Debord in 1967, and rewritten today on the TV screen exposed by Emilio Grollero, takes shape; television was in its infancy and social media was not even imagined: “the entire life of society, in which modern production conditions dominate, announces itself as an immense accumulation of shows. Everything that was directly experienced has receded into a representation.”

Giuliano Arnaldi, Cosio d’Arroscia 5 agosto 2024

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NOMADISMO

“ L’uomo fu inizialmente nomade; oggi, assimilata la stanzialità ed a causa della mondializzazione, sta diventando “nomade” in un modo nuovo. I nomadi hanno inventato gli elementi basilari della civiltà; gli stanziali l’hanno organizzata. Chi si sposta non è detto che sia “barbaro” ma può essere una forza d’innovazione e di creazione; le società quando si chiudono agli itineranti, agli stranieri, a qualsiasi movimento, declinano. Con le nuove tecnologie del viaggio, reale o virtuale, si aprono nuovi scenari per l’umanità. Giunge a compimento l’egemonia dell’ultimo impero stanziale (gli USA), e incomincia la gara a rimpiazzarlo da parte delle tre forze nomadi di oggi: mercato, democrazia, fede”. Questo è l’incipit di un bel libro di Jaques ATTALI , L’UOMO NOMADE – SPIRALI 2006 – Pur essendo datato, nel senso che negli ultimi dieci anni i fenomeni migratori hanno assunto proporzioni e caratteristiche decisamente epocali, il testo di Attali definisce il perimetro dell’argomento. 

A noi interessa riflettere sulla dimensione estetica di quello che è il nomadismo per eccellenza, almeno nel nostro immaginario, ovvero quello che popola i deserti nord africani. Gli oggetti in uso presso quelle culture testimoniano la “ consueta” , sorprendente bellezza a cui ci hanno abituato le Arti Primarie. Nel caso dei picchetti Tuareg sono forma e segno a parlarci; quelli a forma piatta ed articolata si chiamano Ehel, sono posti all’interno delle tende per sostenere i pannelli Eseber – realizzati in fibra vegetale- e destinati a creare spazi intimi. I picchetti scolpiti a tutto tondo si chiamano  Igem,  sono posti all’esterno della tenda,  ne indicano l’ingresso e ne identificano gli abitanti .  Per i rari Burqua “Arouse” dei Rashaida è la  fantasmagoria di materiali ed oggetti usati per creare questo particolare manufatto ad evocare  antiche narrazioni.  Questi particolari veli nuziali fanno riflettere sui pregiudizi che abbiamo verso le  culture  diverse dalla nostra; essendo Burqua, istintivamente ci rimandano all’idea di oppressione e svilimento della donna; non è così, ed è sufficiente vederli per rendersene conto, apprezzandone la varietà di colori, materiali preziosi, intrecci. Non è coprire il volto o il corpo ad essere opprimente, ma essere obbligate a farlo, e c’è molto meno rispetto verso la donna nella ostentazione mercificata del nudo che si fa in occidente. 

Mentre i Touareg sono ampiamente conosciuti e per certi versi mitizzati, i Rashaida furono  l’ultima minoranza a migrare in Eritrea nel XIX secolo dalla Penisola Arabica.  I loro accampamenti sono prevalentemente presso Massawa, ed oggi possono  essere considerati i testimoni dell’unica cultura eritrea interamente nomade e di lingua araba, fortemente tradizionalista. Di carattere schivo e guerriero, storicamente  pirati e predoni , sono coloro che anticamente si occupavano  della tratta degli schiavi e che ancora oggi gestiscono operativamente il transito nel deserto dei migranti, gli schiavi del XXI secolo. 

“ Man was initially nomadic; today, having assimilated sedentary living and due to globalization, he is becoming “nomadic” in a new way. Nomads invented the basic elements of civilization; the residents organized it. Those who move are not necessarily “barbarian” but can be a force of innovation and creation; When societies close themselves to itinerants, to foreigners, to any movement, they decline. With new travel technologies, real or virtual, new scenarios are opening up for humanity. The hegemony of the last sedentary empire (the USA) comes to fruition, and the race to replace it by today’s three nomadic forces begins: market, democracy, faith”. This is the incipit of a beautiful book by Jaques ATTALI, L’UOMO NOMADE – SPIRALS 2006 – Despite being dated, in the sense that in the last ten years migratory phenomena have taken on decidedly epochal proportions and characteristics, Attali’s text defines the perimeter of the topic.

We are interested in reflecting on the aesthetic dimension of what is the nomadism par excellence, at least in our imagination, that is, that which populates the North African deserts. The objects in use in those cultures bear witness to the “usual”, surprising beauty to which the Primary Arts have accustomed us. In the case of the Tuareg pickets, it is the shape and sign that speak to us; those with a flat and articulated shape are called Ehel, they are placed inside the tents to support the Eseber panels – made of vegetable fiber – and intended to create intimate spaces. The all-round sculpted pegs are called Igem, they are placed outside the tent, they indicate the entrance and identify its inhabitants. For the rare Rashaida Burqua “Arouse” it is the phantasmagoria of materials and objects used to create this particular artefact that evokes ancient narratives. These particular wedding veils make us reflect on the prejudices we have towards cultures different from ours; being Burqua, they instinctively refer us to the idea of oppression and debasement of women; this is not the case, and it is enough to see them to realize this, appreciating the variety of colours, precious materials and weaves. It is not covering the face or the body that is oppressive, but being forced to do so, and there is much less respect towards women in the commodified ostentation of nudity that is done in the West.

While the Touareg are widely known and in some ways mythologized, the Rashaida were the last minority to migrate to Eritrea in the 19th century from the Arabian Peninsula. Their camps are mainly near Massawa, and today they can be considered the witnesses of the only entirely nomadic and Arabic-speaking, strongly traditionalist Eritrean culture. Of a shy and warrior nature, historically pirates and raiders, they are those who in ancient times dealt with the slave trade and who still today operationally manage the transit of migrants in the desert, the slaves of the 21st century. 

Giuliano ARNALDI, Onzo. 17 Maggio 2024

clicca qui per vedere le opere esposte https://flic.kr/s/aHBqjBqAcY 

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Kachina.

Li abbiamo defraudati anche dei nomi. Troppo difficili da pronunciare. Così i nativi Americani sono diventati “Indiani”; i primi invasori di quelle terre , ignoranti oltre che avidi, erano convinti di essere nelle indie…Uso la prima persona plurale come incipit per questo testo  perché siamo stati proprio noi, i bianchi-occidentali-cristiani ad iniziare, perseguire  e concludere il più grande genocidio della storia dell’umanità, un genocidio plurimo. Proprio noi..il primo invasore era ligure..ed a partire dal 12 ottobre 1492 decine, ragionevolmente centinaia di culture originali, complesse  e  secolari sono state cancellate. Non sarebbe moralmente accettabile iniziare un qualunque ragionamento che riguardi i Nativi Americani senza questa premessa.

Il caso degli Hopi è esattamente dentro questi parametri. Quel popolo vive  sul vasto altipiano ribattezzato dagli invasori bianchi Black Mesa. E’ una zona desertica, che alterna rocce e sabbia fino a 2000 metri di altitudine; le temperature oscillano tra  -20 e +40 gradi. Conseguentemente gli Hopi hanno sviluppato un sistema di agricoltura adeguato che garantisca la loro sussistenza,  sfruttando ogni elemento del loro ambiente. Piantano il mais, alimento principale,  utilizzando una sorta di bastone da trapianto e scavano una buca profonda da venticinque a cinque centimetri che non rompe la superficie del terreno e impedisce l’evaporazione dell’umidità sottostante. I buchi sono molto distanziati e in ognuno di essi depositano al massimo sei semi.

Si dice che piantano un seme per il vento o per il gelo, uno per i topi, uno per i corvi e due o tre per se stessi. Si ritiene che questi semi siano un segnale al dio della germinazione in modo che ciò possa accadere . Un appezzamento di mais viene seminato in due luoghi diversi, su terreno asciutto dove possono verificarsi inondazioni. Pertanto, se un appezzamento viene spazzato via da un’inondazione, l’altro può essere salvato. Se però non piove, spesso nel sottosuolo rimane abbastanza umidità residua per produrre un piccolo raccolto.

Chi coltiva ha bisogno di ogni aiuto possibile per vivere in questo ambiente. Per questo gli Hopi invocano il  mondo degli spiriti messaggeri, i Kachina, che trasmettono le loro preghiere alle divinità. Sono gli uomini ad occuparsene,  insieme ad ogni aspetto connesso alla agricoltura e alla guerra, intese nella loro dimensione religiosa. Sono però le donne a possedere la terra, la responsabilità della famiglia ed ogni forma di autorità. Si può dire che esse sono la fonte, il nucleo della vita Hopi,  a cui gli uomini devono fornire  sostentamento e protezione. Profondamente convinti che ogni cosa –  animali, piante umani, spiriti, vivi o morti   – sia strettamente correlata e reciprocamente dipendente, gli Hopi hanno creato un sistema ordinato di comportamenti, precisamente stabiliti indipendentemente dall’età. Il mondo soprannaturale è speculare a quello reale , anche se popolato da divinità, semidei, Kachina, mostri e antenati, e le loro vite rispecchiano quelle degli Hopi, sebbene abbiano il potere di controllare ogni aspetto dell’ambiente.

I Kachina prendono forma e vita attraverso i danzatori, protagonisti dei diversi riti che scandiscono il ciclo rituale della Comunità, e si riconoscono in relazione alle maschere che indossano, al costume ed al particolare tipo di movimento che fanno. Sono scolpiti anche sotto forma di bambole, chiamate Tihu, strumento mnemonico rivolto ai più giovani e destinato a tramandare  la visione del mondo HOPI. Il legno usato è il pioppo americano, la forma è cambiata nel corso dei decenni; nelle più antiche, anteriori al 1870, gli arti sono abbozzati direttamente dal tronco, in seguito si iniziò a realizzare braccia articolate che meglio rispecchiassero i movimenti del ballerini. I colori hanno valore simbolico,  riferito ai punti cardinali: giallo per il nord, blu-verde per l’ovest, rosso per il sud, bianco per l’est. Il nero raffigura lo zenit, l’insieme di colori o il grigio il nadir. I diversi toni e i simboli rimandano alle appartenenze claniche ed a specifiche funzioni. 

Xavier Mérigot per Esprit Kachina

Sono stati i Surrealisti, ed in particolare Andrè Breton, i primi a comprendere la potenza evocativa di questi oggetti ed a farli conoscere. Rimando al testo di Pierre Amrouche “ Kachina and Surrealism” pubblicato in “Esprit Kachina” ( Galerie Flack, Parigi 2003, testo di riferimento fondamentale per approfondire la conoscenza di queste formidabili sculture. 

We even cheated them of their names. Too difficult to pronounce. Thus Native Americans became “Indians”; the first invaders of those lands, ignorant as well as greedy, were convinced that they were in the Indies…I use the first person plural as an incipit for this text because it was we, the white-Western-Christians who started, pursued and concluded the greatest genocide in the history of humanity, a multiple genocide. Just us… the first invader was Ligurian… and starting from 12 October 1492 dozens, reasonably hundreds of original, complex and centuries-old cultures were erased. It would not be morally acceptable to begin any argument regarding Native Americans without this premise.

The case of the Hopi is exactly within these parameters. Those people live on the vast plateau renamed Black Mesa by the white invaders. It is a desert area, which alternates rocks and sand up to 2000 meters above sea level; temperatures fluctuate between -20 and +40 degrees. Consequently, the Hopi have developed an adequate agricultural system that guarantees their subsistence, exploiting every element of their environment. They plant corn, the main food, using a sort of transplanting stick and dig a hole twenty-five to five centimeters deep that does not break the surface of the soil and prevents the evaporation of the underlying moisture. The holes are widely spaced and a maximum of six seeds are deposited in each of them.

It is said that they plant one seed for wind or frost, one for mice, one for crows, and two or three for themselves. It is believed that these seeds are a signal to the god of germination so that a particular species of corn can germinate in this place. A plot of corn is planted in two different locations, on dry soil where flooding can occur. Therefore, if one plot is washed away by a flood, the other can be saved. However, if it doesn’t rain, there is often enough residual moisture left underground to produce a small crop.

Farmers need all the help they can get to live in this environment. For this reason the Hopi invoke the world of messenger spirits, the Kachina, who transmit their prayers to the deities. It is men who deal with it, together with every aspect connected to agriculture and war, understood in their religious dimension. However, it is women who own the land, the responsibility of the family and every form of authority. It can be said that they are the source, the nucleus of Hopi life, to which men must provide sustenance and protection. Deeply convinced that everything – animals, plants, humans, spirits, living or dead – is closely related and mutually dependent, the Hopi have created an ordered system of behaviors, precisely established regardless of age. The supernatural world is a mirror image of the real one, although populated by deities, demigods, Kachina, monsters and ancestors, and their lives mirror those of the Hopi, although they have the power to control every aspect of the environment.

The Kachina take shape and life through the dancers, protagonists of the various rites that mark the ritual cycle of the Community, and are recognized in relation to the masks they wear, the costume and the particular type of movement they make. They are also sculpted in the form of dolls, called Tihu, a mnemonic tool aimed at younger people and intended to pass on the HOPI worldview. The wood used is American poplar, the shape has changed over the decades; in the oldest ones, prior to 1870, the limbs are sketched directly from the trunk, later they began to create articulated arms that better reflected the movements of the dancers. The colors have symbolic value, referring to the cardinal points: yellow for the north, blue-green for the west, red for the south, white for the east. Black represents the zenith, the set of colors or gray the nadir. The different tones and symbols refer to clan memberships and specific functions.

It was the Surrealists, and in particular Andrè Breton, who were the first to understand the evocative power of these objects and make them known. I refer to Pierre Amrouche’s text “Kachina and Surrealism” published in “Esprit Kachina” (Galerie Flack, Paris 2003, a fundamental reference text for deepening knowledge of these formidable sculptures.

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i dischi labiali Mursi: quando la sofferenza significa bellezza e potere.

disco labiale Dhebi, cultura Mursi, Etiopia. Terracotta cm 11 x 1,8. Prov. John Van Doren

L’antropologa Shauna LaTosky, parlando alle ragazze Mursi, disse che “non c’è gran differenza nel doversi mostrare alle feste danzanti col tacco 12, oppure portare un piattello labiale della stessa misura durante i duelli donga “ (cerimonie rituali durante le quali i maschi si misurano a colpi di bastone). E che dire della chirurgia plastica,  conseguenza di un fenomeno poco considerato ma dilagante, ovvero il body fascism, l’intolleranza verso coloro i cui corpi non si conformano a una particolare visione di ciò che è desiderabile? Pare che in ogni cultura scatti la trappola di modelli di bellezza impossibili da raggiungere senza farsi male.

Il caso delle donne Mursi è più complesso. I Mursi sono una popolo di circa dodicimila persone, appartenente al più vasto gruppo dei Surma, sono agricoltori e pastori e vivono nell’Etiopia meridionale tra i fiumi Amo e Mago. Intanto il loro mito d’origine sostiene che in principio non ci fossero uomini, ma solo donne;  capitò che una ragazza raccolse un corpo che galleggiava sul fiume, dentro un’arnia di corteccia, e lo nascose nella sua capanna. Era un ragazzo, e appena divenne uomo, la mise incinta. Con il crescere della pancia crebbe la curiosità delle altre donne, a cui la ragazza rispose«Ho cotto e mangiato la terra di un termitaio e inserito nella vagina una gususi (la mordace formica legionaria Aenictus hamifer,)». Pare che altre ragazze provarono la tecnica indicata, senza successo… ma è interessante notare il fatto che terra e dolore siano elementi imprescindibili nella antropopopoiesi (1) dei Mursi, ovvero quel processo che in antropologia definisce la formazione dell’uomo-sociale, con particolare riferimento  alla modificazione del corpo fisico:  Fin  dall’antichità l’essere umano ha considerato imperfetto il proprio corpo, e vissuto questa imperfezione come un limite rispetto alle proprie aspettative,  sopratutto in termini di relazione sociale; conseguentemente ha sentito l’esigenza di porre il corpo  dentro una visione del mondo che consentisse di elaborare risposte alle grandi domande dell’esistenza , creando quella che chiamiamo cultura. 

Veniamo quindi al Dhebi, il piattello labiale indossato dalle ragazze Mursi in attesa di sposarsi . E’ un disco in terracotta – in casi rari in legno – normalmente misura tra i 10 e 12 cm, è spesso poco più di un centimetro e pesa oltre 150 gr. Viene inserito nel labbro inferiore alla fine di un percorso che dura circa tre mesi ed inizia con  l’incisione del labbro, effettuata dalla madre o da un’altra donna della comunità. Viene inserito un pezzetto di legno fino a che la ferita – dolorosissima! – non si è cicatrizzata. A quel punto la ragazza provvederà ad allargare il foro sempre di più fino a raggiungere la dimensione desiderata, normalmente circa 12 cm

Ovviamente è necessario sfilalo per bere e mangiare, ed è particolarmente ingombrante. Ma è l’elemento più significativo nel percorso di seduzione. Il mento oscilla avanti e indietro in modo sensuale, generando un suono sottile che  i  Mursi chiamano zes zes. E’ un risultato che si ottiene al prezzo di grandi sofferenze; le dimensioni del disco obbligano a rimovere gli incisivi inferiori con una lama affilata, e non si deve piangere. E’ probabile che questo rito sia una feroce metafora della capacità di affrontare le difficoltà della vita, e che quindi  deformità e dolore siano fine,  e non mezzo. In genere le mutilazioni femminili sono fatte per assecondare gli uomini, ma sono fortemente volute e perpetrate dalle donne.  E’ ragionevole ritenere che, almeno in questo caso, siano un modo dolorosamente concreto per affermare una forza esistenziale che il maschio non può sottovalutare. La vita di questi oggetti è legata alla loro funzione: è indossato sempre quando si cerca marito, in cerimonie pubbliche particolarmente rilevanti nel caso di giovani spose, e gettato in caso di morte dello sposo. 

La suggestione contemporanea di questi oggetti è palese. Sembrano dipinti da un Artista Contemporaneo,  rigorosi nella loro armonia formale che rimanda certamente ad un “ codice” , ma è non  semplice leggerli, decodificare il significato di forme e colori dipinti sul disco; Secondo Alberto Salza (africarivista.it) certamente ne esistono almeno tre tipi in terracotta:  “ rosso (dhebi a golonya), marrone (a luluma), nero (a korra) e creta naturale (a holla, “bianco”). I piattelli rossi, coperti dalla corteccia profumata di un albero di foresta, si ottengono sui carboni ardenti. I piattelli “bianchi” sono in terracotta, ma non sfregati con l’erba, che tinge di nero; il bruno si ottiene dalla combustione di una pianta medicinale che aiuta la cicatrizzazione delle ferite. Oltre a quelli in terracotta, esistono i rari piattelli di legno (burgui), fatti esclusivamente dagli uomini mursi. “ 

  1. Personalmente mi affascina il fatto che termine ‘antropopòiesi’ sia costruito sulle due parole greche anthropos, ‘essere umano’, e poiesis, che significa ‘costruzione’, ma anche ‘composizione poetica’.
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Dove / Where quando/ when

FURORE! La furia di Virabhadra parte da Onzo…

https://flic.kr/s/aHBqjB3VU9 clicca qui per vedere la collezione

FURORE! è il titolo scelto per presentare una importante collezione di placche in bronzo Hindu databili tra il XVII E IL XIX secolo raffiguranti il mito di Virabhadra, e provenienti dalla Collezione di Paola e Giuseppe Berger. Nell’imponente Pantheon  induista la figura di VIrabhadra giganteggia; egli distrugge, perché “la pazienza, troppo spesso messa alla prova, diventa furore. (Publilio Siro)”,  perché ad un certo punto il nuovo ed il giusto si fanno  strada solo sovvertendo, demolendo, senza alcuna remora e senza alcuna pietà. E’ il furore per eccellenza, quello di Virabhadra, ovvero la reincarnazione guerriera di Shiva. Presentato in anteprima a Onzo, presso la Casa degli Artisti, sarà uno degli eventi destinato a girare l’Europa in occasione di TRIBALEGLOBALE 24, Pensiamo Immagini, l’insieme di manifestazioni organizzate dalla Associazione SituAzioni Tribaliglobali per celebrare i vent’anni di Tribaleglobale. 

In esposizione novanta placche in metalli diversi – rame, ottone, bronzo – provenienti dalla Collezione dei milanesi Giuseppe e Paola Berger.

Abbiamo da tempo il privilegio di esporre oggetti provenienti da questa importante collezione, prevalentemente riguardante le culture Indiane; nota per la qualità delle opere, la collezione è presente in importati spazi museali pubblici come il Museo Pigorini di Roma ( a cui la Famiglia Berger ha donato oltre mille oggetti “BETEL” ) e la Biblioteca Ambrosiana di Milano, a cui Paola e Giuseppe Berger donarono parte della collezione di placche VIRABHADRA . Grazie alla disponibilità degli eredi di Giuseppe Berger, possiamo oggi esporne la restante parte, quella più  più intima e privata. 

ICONOGRAFIA

Le placche, databili tra il XVII E IL XIX secolo, sono realizzate in metalli diversi, mediante fusione a cera persa o a sbalzo. Ganci ed  anelli indicano l’uso di appenderle nei tempietti di famiglia, la presenza di un manico sul retro che ne consente l’impugnatura rimanda invece ad un uso cerimoniale. Sostanzialmente si conoscono due stili: uno più accurato nel dettaglio, definito aulico, l’altro più essenziale, conosciuto come tribale. La struttura ad arco evoca l’alone di luce che accompagna l’apparizione di un essere divino; dall’alto verso il basso possiamo trovare   al centro un mascherone leonino, ai lati il sole e la luna, il linga yoni, che simboleggia l’unione tra il dio e la dea,  e il toro Nandi, simbolo della cavalcatura di Shiva oppure  Il cobra , singolo o policefalo ma sempre in numero dispari; il volto di Virabhadra è sempre rappresentato come irato e feroce,   il terzo occhio e/o i tre segni sulla fronte indicano la devozione a Shiva. Le braccia possono essere fino a dieci, ed impugnano armi e simboli diversi. In basso, ai lati, si trovano abitualmente Daksa, rappresentato con la testa del montone,  e Sati, manifestazione serena della moglie di Shiva,  o Kali , la sua declinazione terrifica.

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Togu na, la Casa parla/ Togu na, the house speaks

La Casa della Parola dei Dogon parla fin dal modo in cui è fatta ed è posizionata…
The Dogon House of the Word speaks from its forms, and position…

E’ raro che da questa parte del mondo gli spazi abitativi comuni ( villaggi, città quartieri, città..) siano stati progettati secondo una visione che vada oltre le necessità funzionali. C’è stata nel passato  una attenzione agli elementi naturali ( luce, presenza dell’acqua, venti.. ) e nel caso degli edifici di culto un orientamento rispetto al sorgere del sole, ma non pare ci sia stato  interesse verso elementi più trascendenti.

Non è certamente il caso delle culture che ci ostiniamo a definire ”primitive.” I popoli Pigmei della foresta dell’Ituri, ad esempio, smontano e rimontano le loro semplici capanne secondo un preciso schema valoriate prima che funzionale, i Dogon del Mali orientano i loro villaggi secondo criteri ben precisi, da nord a sud, dando loro una forma “urbanistica” che ricordi un uomo supino, potremmo dire sdraiato per guardare le Stelle. La testa di questo uomo immaginato ( o meglio evocato) è il Togu na. Togu significa riparo, na significa madre. Il Togu na è quindi il Grande Riparo, Madre Riparo. i Dogon lo indicano anche come “Casa della Parola” (la parola pronunciata nel togu na assume valori ed importanza che la differenziano da ogni altra) Sede specifica della parola “seduta”, calma e ponderata, è il centro nel quale si assumono le decisioni che governano il villaggio. La forma rimanda al  riparo dove si riunirono gli otto antenati primordiali, ciascuno dei quali è identificato con un pilastro, spesso scolpiti con immagini antropozoomorfe. L’impianto ideale del Togu na è rettangolare, orientato secondo i punti cardinali, ma vi  sono numerose  varianti sia nella forma che nei materiali. In generale si tratta di una bassa costruzione definita da tre file di pilastri lignei o in pietra, e da una travatura che sostiene  una copertura fatta di strati sovrapposti di materiale vegetale, normalmente steli di miglio,  con la funzione pratica di riparare efficacemente dal sole senza impedire la ventilazione. Che ogni elemento di quella cultura, compresi quelli materiali,  sia destinato a parlare, lo dicono le caratteristiche  comuni ad ogni Togu Na.  Le dimensioni sono sempre tali da permettere che la parola espressa in tono calmo e normale possa raggiungere chiunque sieda sotto al grande riparo e l’altezza dello spazio utile interno è sempre ridottissima, al fine di impedire  alla persona  di rimanere in piedi. Si può veramente dire che la Casa della Parola parla fin dal suo modo di essere! Anche la presenza  pressoché costante di un grande fico nelle immediate vicinanze del Togu na ha una funzione sia pratica che simbolica: serve insieme ad individuare facilmente il luogo anche da lontano, ed evoca un antico proverbio Dogon, “ l’ombra del fico è come il riparo della parola”.

It is rare that in this part of the world common living spaces (villages, cities, neighborhoods, cities…) have been designed according to a vision that goes beyond functional needs. In the past there has been attention to natural elements (light, presence of water, winds…) and in the case of buildings of worship an orientation towards the rising of the sun, but there does not seem to have been an interest in more transcendent elements.

This is certainly not the case with cultures that we persist in defining as “primitive.” The Pygmy people of the Ituri forest, for example, dismantle and reassemble their simple huts according to a precise scheme that values ​​rather than functions, the Dogon of Mali orient their villages according to very specific criteria, from north to south, giving them a shape “urban planning” that recalls a supine man, we could say lying down to look at the Stars. The head of this imagined (or rather evoked) man is the Togu na. Togu means shelter, na means mother. The Togu na is therefore the Great Shelter, Mother Shelter. the Dogon also indicate it as the “House of the Word” (the word pronounced in the togu na takes on values ​​and importance that differentiate it from any other) Specific seat of the word “sitting”, calm and thoughtful, is the center in which decisions are made who govern the village. The shape refers to the shelter where the eight primordial ancestors gathered, each of which is identified with a pillar, often carved with anthropozoomorphic images.

The ideal layout of the Togu na is rectangular, oriented according to the cardinal points, but there are numerous variations in both shape and materials. In general it is a low construction defined by three rows of wooden or stone pillars, and by a beam that supports a covering made of overlapping layers of plant material, normally millet stems, with the practical function of effectively protecting from the sun without prevent ventilation. The characteristics common to each Togu Na say that every element of that culture, including the material ones, is destined to speak. The dimensions are always such as to allow the word expressed in a calm and normal tone to reach anyone sitting under the large shelter and the height of the internal useful space is always very low, in order to prevent the person from remaining standing. It can truly be said that the House of the Word speaks from its way of being! Even the almost constant presence of a large fig tree in the immediate vicinity of the Togu na has both a practical and symbolic function: it serves both to easily identify the place even from afar, and evokes an ancient Dogon proverb, “the shadow of the fig tree is like the shelter of the word”.

Giuliano Arnaldi, Onzo 24 settembre 2024

le foto sono tratte da Togu Na, Spini – Electa 1976

palo di Togu na, Collezione Tribaleglobale pro. G.F.Scanzi cm 206

Palo di Togu na Collezione Tribaleglobale cm 169 prov. G.F.Scanzi

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COMBS /„Tutti i nodi vengono al pettine. Quando c’è il pettine.“

https://flic.kr/s/aHskkzNvuX clicca qui per vedere la collezione

Per la presentazione della nostra collezione di pettini ho scelto una frase di Leonardo Sciascia; definisce in modo caustico ed essenziale l’importanza che riconosciamo a questo piccolo oggetto d’uso quotidiano, ne svela il profondo significato simbolico e concettuale.  Come nasce un pensiero, o meglio, come nasce il pensiero, come si evolve fino a diventare un sistema complesso ed articolato che diventa cultura? Si può certamente dire che fino dall’antichità più remota l’osservazione di gesti istintivi fondamentali per la sopravvivenza , l’interiorizzazione del loro manifestarsi che ne qualifica l’utilità funzionale, sono l’insieme fondante del processo di conoscenza . Osservare, comprendere, astrarre e concettualizzare una esperienza ponendola in relazione ad altre, rende quella esperienza patrimonio culturale. E l’essere umano è sempre partito dal proprio corpo, dal modo in cui esso si fa strumento per governare il mondo circostante fin dalle azioni più semplici. 

Pensate alla mano, primo strumento che districa i peli incolti del primate ( e poi dell’uomo), che lo aiuta ad aprirsi un varco nella radura. Probabilmente il primo pettine è nato così, realizzato da qualcuno che osservò la propria mano e la riprodusse nella forma, che parte spessa e solida per dipanarsi in una serie di elementi appuntiti. Come la   mano districa i capelli, apre la strada nella foresta, i denti del pettine mettono ordine nei capelli e li liberano da parassiti. E non deve essere un caso che gli elementi terminali del pettine siano chiamati da sempre denti. 

I pettini presentati in questa pubblicazione provengono da aree geografiche e culturali profondamente diverse tra loro. Africa, Oceania e Indonesia, India. il linguaggio estetico, i materiali usati, i riferimenti simbolici ne dichiarano l’appartenenza culturale e geografica, ma  hanno origine comune.

Osserva Donatella Dolcini, Professore Ordinario di Lingua Hindi e Cultura Indiana presso Università Statale Milano (UNIMI) nel catalogo che presentò la collezione di pettini raccolta da Giuseppe Berger : “Al pari di dita/unghie, anche i denti svolgono una funzione di primaria importanza nel ritmo quotidiano della vita dell’uomo, permettendogli di incidere il cibo così da ridurlo immediatamente da un complesso unico e coeso – difficile da inghiottire, grande o piccolo che sia – a uno almeno grossolanamente parcellizzato. In sostanza, una variante del gioco delle dita che dividono un unico blocco in porzioni (strisce) più minute e agevoli da gestire. E infine l’elaborazione del pettine, dal mero uso primario, direttamente disceso dall’analogia con la mano, a quello mediato dalla dentatura, giunge a quel terzo stadio, immancabile nei processi di manifattura dell’uomo, che è il lato estetico. La mano-pettine, che in seconda battuta aveva incorporato anche l’imitazione della funzione dentaria, diventa alla fine un oggetto ancora più evoluto, in cui si manifesta non più solo la concreta estensione tecnologica di organi naturali, ma anche il libero apporto della creatività umana. Così la forma del pettine si abbellisce con l’eventuale aggiunta di un manico più o meno elaborato e di ghirigori che vanno ad impreziosire l’impugnatura, e modifica la propria misura fino a diventare il pettinino, un grazioso e aggraziato complemento della toilette e dell’abbigliamento soprattutto femminile.“ 

Il valore insieme semplice e profondo di questo tipo di oggetti è sorprendente, manifesta in modo netto la capacità umana di elaborare esperienze e migliorarle costantemente mediante un perfezionamento tecno logico che non è prodotto da macchine ma dall’ingegno. Ed è altrettanto sorprendente la necessità di rendere l’oggetto non solo funzionale ma anche bello, caricandolo di contenuti simbolici evocativi che spesso sono destinati ad amplificarne metaforicamente la funzione. Nei pettini delle culture Ivoriane, in gran parte raccolte da Giovanni Franco Scanzi negli anni sessanta del secolo scorso, l’elemento identitario è evidente. Le forme rimandano a figure di Antenati Ancestrali, oggetti sacri, animali il cui potere energetico, per il tramite dell’oggetti, potrà aiutare chi lo usa.  Nel caso degli antichi pettini in avorio provenienti dalla Collezione Berger, in gran parte “scritti” con la figura di Ganesh, sempre Dolcini nota giustamente “Forse la ricorrente iconografia sul pettinino del dio elefante (Ganesh appunto) potrebbe collegarsi all’immagine simbolica che la capacità del pachiderma a farsi largo nella fitta vegetazione della giungla, penetrandovi dentro, suscita riguardo al figlio di Shiva, adorato infatti anche come rimovitore degli ostacoli.

For the presentation of our collection of combs I chose a phrase from the Sicilian writer Leonardo Sciascia; defines in a caustic and essential way the importance we recognize in this small object of everyday use, revealing its profound symbolic and conceptual meaning.

How does a thought arise, or rather, how does thought arise, how does it evolve to become a complex and articulated system that becomes culture? It can certainly be said that the observation of instinctive gestures fundamental for survival since the most remote antiquity, the internalization of their manifestation, the fundamental elements that qualify their functional usefulness are the founding whole of the knowledge process. Observing, understanding, abstracting and conceptualizing an experience by placing it in relation to others makes that experience cultural heritage. And the human being has always started from his own body, from the way in which it becomes an instrument to govern the surrounding world starting from the simplest actions.

Think of the hand, the first tool that untangles the unkempt hair of the primate (and then of man), which helps him to open a path in the clearing. The first comb was probably born like this, made by someone who observed his own hand and reproduced its shape, which starts out thick and solid and then unravels into a series of pointed elements. As the hand untangles the hair, opens the way in the forest, the teeth of the comb tidy up the hair and free it from parasites. And it must not be a coincidence that the terminal elements of the comb have always been called teeth. The combs presented in this publication come from profoundly different geographical and cultural areas. Africa, Oceania and Indonesia, India. the aesthetic language, the materials used, the symbolic references declare their cultural and geographical belonging, but they have a common origin.

Donatella Dolcini, Full Professor of Hindi Language and Indian Culture at the Milan State University (UNIMI) observes in the catalog that presented the collection of combs collected by Giuseppe Berger: “Like fingers/nails, teeth also perform a function of primary importance in daily rhythm of man’s life, allowing him to affect food so as to immediately reduce it from a single and cohesive complex – difficult to swallow, large or small – to one that is at least roughly fragmented. In essence, a variant of the game of fingers that divide a single block into smaller and easier to manage portions (strips). And finally the development of the comb, from the mere primary use, directly descended from the analogy with the hand, to that mediated by the teeth, reaches that third stage, inevitable in man’s manufacturing processes, which is the aesthetic side. The hand-comb, which subsequently also incorporated the imitation of the dental function, ultimately becomes an even more evolved object, in which not only the concrete technological extension of natural organs is manifested, but also the free contribution of creativity Human. Thus the shape of the comb is embellished with the possible addition of a more or less elaborate handle and curlicues that embellish the handle, and changes its size until it becomes the comb, a graceful and graceful complement to the toilet and the ‘especially women’s clothing.“

The simple and profound value of this type of object is surprising, it clearly demonstrates the human ability to process experiences and constantly improve them through technological improvement that is not produced by machines but by ingenuity. And equally surprising is the need to make the object not only functional but also beautiful, loading it with evocative symbolic contents which are often intended to metaphorically amplify its function.

In the combs of the Ivorian cultures, largely collected by Giovanni Franco Scanzi in the sixties of the last century, the element of identity is evident. The shapes refer to figures of Ancestral Ancestors, sacred objects, animals whose energetic power, through the objects, can help those who use it. In the case of the ancient ivory combs from the Berger Collection, largely “written” with the figure of Ganesh, Dolcini rightly notes “Perhaps the recurring iconography on the comb of the elephant god (Ganesh precisely) could be connected to the symbolic image that the pachyderm’s ability to make its way through the dense vegetation of the jungle, penetrating it, arouses respect for the son of Shiva, who is also worshiped as a remover of obstacles.“

Giuliano Arnaldi, Onzo 21 settembre 2023

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Chi Siamo/ About Us

Museo / Nomade / di Arti Primarie

MUSEO ( [dal lat. Musēum, gr. Μουσεῖον der. di Μοῦσα «musa2» (propr. «luogo sacro alle Muse») perché organizzare ed esporre opere d’arte è in qualche modo una espressione di sacralità: l’arte parla al Profondo.

NOMADE perché le opere sono destinate ad essere esposte ovunque possano servire per creare dialogo tra le persone e le loro culture

di ARTI PRIMARIE perché le opere sono organizzate senza soluzione di continuità nel tempo e nei luoghi. Sono state scelte per la loro evidenza archetipica, e sono destinate ad evocare stati di coscienza che appartengono a ciascuno di noi, a chi ci ha preceduto, a chi verrà dopo. Perché parlano di vita, di morte, di coraggio, di paura, di dolore, di gioia, di amore, di odio..

MUSEUM ( [from the lat. Musēum, gr. Μουσεῖον der. of Μοῦσα «musa2» (propr. «place sacred to the Muses») because organizing and exhibiting works of art is in some way an expression of sacredness: art speaks to the Deep.

NOMAD because the works are intended to be exhibited wherever they can be used to create dialogue between people and their cultures

of PRIMARY ARTS because the works are organized without solution of continuity in time and places. They have been chosen for their archetypal evidence, and are intended to evoke states of consciousness that belong to each of us, to those who preceded us, to those who will come after, because they speak of life, of death, of courage, of fear, of pain, of joy, of love, of hate..
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Dove / Where focus

LA CASA DEGLI ARTISTI di Cosio d’Arroscia 2/ CoBrA!

Casa degli artisti, Cosio d’Arroscia.
Rete MAP MUSEO NOMADE DI ARTI PRIMARIE

In qualche modo l’esperienza dell’internazionale Situazionista, nata nel 1957 a Cosio d’Arroscia, nacque da una breve, intensa e lungimirante avventura artistica conosciuta come C0.Br.A. Il gruppo deve il nome alle città di provenienza dei fondatori, Copenaghen, Brussels, Amsterdam. Asger Jorn, Pierre Alechinsky, Karel Appel e altri tra cui Corneille e Vardercam . Nonostante la breve durata ( dal 1948 al 1951, con solo due mostre all’attivo ) quel modo di fare arte, così “brutale”, immediato e istintivo cambiò il modo stesso di intendere la pittura e la stessa idea di opera artistica. La critica radicale del mercato arrivò fino a cambiare la percezione del rapporto tra opera, artista e collezionista, e pose le basi per giungere qualche anno dopo alla provocatoria pittura industriale venduta a metro del “Situazionista” Pinot Galizio. In realtà gli Artisti del Co.Br.A. furono sperimentatori di nuove tecniche, facendo della riproduzione seriale di un’opera d’arte una esperienza non solo legata alla necessità di rendere l’accesso all’arte più economico ( e quindi più “democratico) . Le opere vennero “pensate” per essere riprodotte con tecniche di stampa particolari, spesso rese di fatto uniche con interventi originali e specifici sulle diverse copie, e gli stampatori vennero coinvolti nella creazione artistica. E’ particolarmente significativa in questa ottica l’esperienza dei Fratelli Pozzo di Torino e delle loro Edizioni d’Arte, dirette non a caso da Ezio Gribaudo, Artista poi divenuto Presidente Emerito della Accademia Albertina di Torino. La Prova d’Artista di Asger Jorn del 1970, che esponiamo in questa occasione, proviene da questa esperienza. Anche le altre opere in esposizione. La Prova d’Artista di Karel Appel , iconica nel linguaggio estetico di quel movimento, è stampata su pergamena, mentre la Prova d’Artista di Pierre Alechinsky è realizzata con tecniche diverse, dall’incisione alla fotografia. Certamente ci furono anche Artisti che della serialità dell’opera d’arte fecero un uso più “estetico” e conseguentemente commerciale, come testimonia la litografia di Corneille, ancorché realizzata in una bassa tiratura.

L’opera di Serve Vandercam è invece un dipinto su carta riportato su tela

“ Asger Jorn: dipingere con la tipografia” La testimonianza di Ezio Gribaudo “ Ho conosciuto Asger Jorn nei primi anni sessanta, durante la preparazione di un volume che ho stampato alla Fratelli Pozzo per Noel Arnaud, La langue verte et la cuite, edito da Jean-Jacques Pauvert. Il libro fu costruito sui tavoli del montaggio, dove si decorarono le lingue, si scelsero e ritagliarono le immagini; non fu preparata una vera e propria maquette, ma si procedette n una mise en page a più mani. Jorn lavorò una settimana. Fino a sera inoltrata dormendo su un lettino di fortuna in infermeria; capiva di avere a disposizione un parco macchine speciale e mi fu sempre grato di avergli dato l’opportunità di dipingere con la tipografia Jorn amava molto la tipografia, l’odore degli inchiostri e dei piombi, dei cliche e dei fani; gli piaceva lavorare direttamente sulle lastre e si cimentava a realizzare opere sperimentali di grafica di grande formato su cui interveniva personalmente di inchiostri e caratteri tipografici. Proprio per la Fratelli Pozzo realizzò la litografia più grande della sua carriera (200 x 140 cm). Jorn amava la parte più creativa e, come se si fosse trovato nel proprio atelier, riuscivamo a dar vita a un lavoro collettivo con i cromisti e le altre maestranze. Ho realizzato con lui due volumi, il primo nel 1970, Jorn a Cuba, testimonianza del suo lavoro svolto a L’Avana su invito del governo cubano nel 1968 che risponde, da un lato, all’idea dell’impegno sociale dell’autore e, dall’altro, ai legami internazionali anche con altri artisti, per esempio Wifredo Lam. Il secondo, Le jardin d’Albisola, è uscito postumo nel 1974 e documenta le ceramiche che l‘artista danese realizzava appunto in questo luogo della Liguria, ora diventato Museo.” Testimonianza di Ezio Gribaudo. Si ringrazia la dott.ssa CATERINA FOSSATI 

Somehow the experience of the Situationist international, born in 1957 in Cosio d’Arroscia, was born from a short, intense and farsighted artistic adventure known as C0.Br.A. The group owes its name to the cities of origin of the founders, Copenhagen, Brussels, Amsterdam. Asger Jorn, Pierre Alechinsky, Karel Appel and others including Corneille and Serge Vardercam. Despite the short duration (from 1948 to 1951, with only two active exhibitions) that way of making art, so “brutal”, immediate and instinctive changed the very way of understanding painting and the same idea of ​​artistic work. The radical critique of the market went so far as to change the perception of the relationship between work, artist and collector, and laid the foundations for arriving a few years later at the provocative industrial painting sold by the meter of the “Situationist” Pinot Galizio. Actually the Artists of the Co.Br.A. they were experimenters of new techniques, making the serial reproduction of a work of art an experience not only linked to the need to make access to art cheaper (and therefore more “democratic”). The works were “designed” to be reproduced with particular printing techniques, often made in fact unique with original and specific interventions on the various copies, and the printers were involved in the artistic creation. In this perspective, the experience of the Pozzo Brothers of Turin and their Art Editions is particularly significant, directed not by chance by Ezio Gribaudo, an artist who later became President Emeritus of the Accademia Albertina in Turin. Asger Jorn’s Proof of Artist from 1970, which we are exhibiting on this occasion, comes from this experience. Also the other works on display. Karel Appel’s Artist’s Proof, iconic in the aesthetic language of that movement, is printed on parchment, while Pierre Alechinsky’s Artist’s Proof is made with different techniques, from etching to photography. Certainly there were also artists who made a more “aesthetic” and consequently commercial use of the seriality of the work of art, as evidenced by Corneille’s lithograph, albeit made in a small edition.

“ Asger Jorn: painting with typography”

The testimony of Ezio Gribaudo

“ I met Asger Jorn in the early sixties, during the preparation of a volume that I printed at Fratelli Pozzo for Noel Arnaud, La langue verte et la cuite, edited by Jean-Jacques Pauvert. The book was built on the editing tables, where the languages ​​were decorated, the images were chosen and cut out; a real maquette was not prepared, but a multi-handed mise en page proceeded. Jorn worked for a week. Until late in the evening sleeping on a makeshift cot in the infirmary; he understood that he had a special fleet of machines at his disposal and he was always grateful to me for having given him the opportunity to paint with typography. Jorn was very fond of typography, the smell of inks and leads, clichés and fans; he liked to work directly on the plates and tried his hand at creating experimental works of large format graphics on which he personally intervened with inks and typographic characters. Precisely for Fratelli Pozzo he created the largest lithograph of his career (200 x 140 cm). Jorn loved the most creative part and, as if he were in his own atelier, we were able to create a collective work with the chromatists and other workers. I wrote two volumes with him, the first in 1970, Jorn in Cuba, evidence of his work carried out in Havana at the invitation of the Cuban government in 1968 which responds, on the one hand, to the idea of ​​the author’s social commitment and , on the other hand, to international ties also with other artists, for example Wifredo Lam. The second, Le jardin d’Albisola, was published posthumously in 1974 and documents the ceramics that the Danish artist made precisely in this place in Liguria, which has now become a museum.”

Testimony of Ezio Gribaudo.

Thanks to Dr. CATERINA FOSSATI

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LA CASA DEGLI ARTISTI di Cosio d’Arroscia 1/ Rainer Kriester

Le SituAzioni Tribaliglobali trovano casa nel paese dove nacque il Situazionismo. / Tribal global Situ Actions find a home in the place where Situationism was born in 1957.

https://flic.kr/s/aHBqjALDK5

DANKE RAINER!

Onorare  la memoria di un grande Artista non è solo doveroso, ma utile. Si onora la memoria di qualcuno che ha lasciato  una traccia,  a disposizione di chi resta nel faticoso cammino della vita: una lezione che insegna a meglio vedere un percorso.  

Nel caso di un Artista questa verità è ancora più tangibile perché  l’arte parla un linguaggio universalmente semplice , chiaro in ogni tempo e in ogni luogo: il linguaggio della bellezza.

È un linguaggio che si comprende nella dimensione delle emozioni più che in quella delle parole, un linguaggio che non descrive ma evoca.

Capita talvolta che accada anche qualcosa di più , che il passare del tempo sveli una profondità ancora maggiore nella traccia rimasta e questo è certamente il caso di Rainer Kriester. 

Con il passare del tempo comprendiamo sempre più e sempre meglio il valore archetipico del suo linguaggio, quel mescolare segni, cifre, forme, materia in modo insieme così misterioso e così familiare , come a ricordarci che siamo fatti per comprendere la bellezza dei numeri e il rigore scientifico delle forme , dei segni e della materia, come a ricordarci che ciò accade perché non c’è frattura tra cervello e cuore.

Nello Sala Permanente dedicata a Rainer Kriester presso la Casa degli Artisti di Cosio d’Arroscia, Paese Situazionista, abbiamo scelto di esporre la formidabile quotidianità di Rainer: una parte delle preziosissime chine che il Maestro faceva praticamente ogni igiorno, per fermare pensieri da trasformare in opere d’arte. Sono potenti, monumentali e solide come le sue sculture. Articolati e profondi nel continuo rimando ad un antico alfabeto metaforico che sembra poter svelare i segreti più arcani dell’universo, queste piccole chine  anticipano la  “leggerezza”  delle sculture in pietra e bronzo, presenze quasi intangibili per l’armonia tra forme, materia e segno. Grazie alla disponibilità di Jean Marc Beyer  , custode attento della memoria di Rainer e Christiane, possiamo vedere quelle opere in un ambiente arredato con i mobili originali provenienti dalla abitazione Vendonese del Maestro e della sua indimenticata compagna di una vita, Christiane. 

Non c’è da stupirsi : lo splendore del Vero rompe gli schemi di una osservazione superficiale e obbliga ad un altro sguardo , ad un’altra profondità di campo dove il metro di misura si cerca dentro di se e non fuori.

Abbiamo scelto – in omaggio alla preveggenza visionaria di uno dei pochi Artisti del Novecento  che abbia colto , testimoniato e tradotto nel linguaggio del nostro tempo il messaggio profondo delle Arti Primarie – di esporre in questa Sala una prestigiosa raccolta di maschera a elmo, provenienti da diverse culture Africane. Di fatto sono  teste, e le loro forme furono studiate con attenzione da Kriester _ come testimonia una nutrita collezione di chine – , fino a diventare parte fondamentale del linguaggio  estetico del grande Maestro Tedesco. L’insieme di opere così  diverse nel tempo e nei luoghi ci consente di vedere la segreta armonia che nasce dal dialogo tra opere d’arte apparentemente così distanti tra loro per origine e materia. L’arte si manifesta così come  un forte richiamo alla  fratellanza universale di ogni essere umano: non è neutrale, è  maestra di Vita e ci ricorda nei momenti difficili come quello che stiamo vivendo che è nell’Altro che possiamo trovare il meglio di noi stessi. Danke,  Rainer. 

Honoring the memory of a great Artist is not only a duty, but a useful one. The memory of someone who has left a trace is honored, available to those who remain on the tiring journey of life: a lesson that teaches us to better see a path.
In the case of an Artist this truth is even more tangible because art speaks a universally simple language, clear in every time and place: the language of beauty.
It is a language that is understood in the dimension of emotions rather than in words, a language that does not describe but evokes.

Sometimes something more also happens, that the passage of time reveals an even greater depth in the remaining track and this is certainly the case with Rainer Kriester.
Over time we understand more and more and better the archetypal value of his language, that mix of signs, figures, shapes, matter in a way that is both so mysterious and so familiar, as if to remind us that we are made to understand the beauty of numbers and the scientific rigor of forms, signs and matter, as if to remind us that this happens because there is no break between the brain and the heart.In the Permanent Room dedicated to Rainer Kriester at the Casa degli Artisti in Cosio d'Arroscia, a Situationist town, we have chosen to exhibit the formidable everyday life of Rainer: a part of the very precious inks that the Maestro made practically every day, to freeze thoughts to be transformed in works of art. They are powerful, monumental and solid like his sculptures. Articulate and profound in the continuous reference to an ancient metaphorical alphabet that seems to be able to reveal the most arcane secrets of the universe, these small inks anticipate the "lightness" of sculptures in stone and bronze, almost intangible presences for the harmony between shapes, materials and sign. Thanks to the availability of Jean Marc Beyer, attentive guardian of the memory of Rainer and Christiane, we can see those works in an environment furnished with the original furniture from the Vendonese home of the Master and his unforgettable lifelong companion, Christiane.
No wonder: the splendor of the True breaks the mold of a superficial observation and forces us to take another look, to another depth of field where the yardstick is sought within and not outside.

We have chosen - in homage to the visionary foresight of one of the few 20th century artists who have grasped, witnessed and translated the profound message of the Primary Arts into the language of our time - to exhibit in this Room a prestigious collection of helmet masks, from different African cultures. In fact they are heads, and their shapes were carefully studied by Kriester _ as evidenced by a large collection of inks - until they became a fundamental part of the aesthetic language of the great German Master. The set of works so different in time and place allows us to see the secret harmony that arises from the dialogue between works of art that are apparently so distant from each other in origin and material. Art thus manifests itself as a strong call to the universal brotherhood of every human being: it is not neutral, it is a teacher of Life and reminds us in difficult moments such as the one we are experiencing that it is in the Other that we can find the best of ourselves . Danke, Rainer.



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Un’archetipo suggestivo: Chi Wara.

Maschera ad elmo Chiwara/ Sogolikun. Cultura Bamana, Mali.

Legno. Cm 46 Provenienza collezione privata, Spagna, Native Auction.

( Il nome Sogonikun è dato a un tipo di cimiero e figura mascherata che apparve a Wasolon e fu adottato nelle regioni vicine. ). Per un esemplare molto simile si veda Sotheby’s, NYC 7557 pag 23 figura 17

La vita sociale, economica e spirituale dei Bamana, nel sud-ovest del Mali, è governata da sei società di iniziazione conosciute collettivamente come dyow (sing. dyo). Le sei società sono n’domo, komo, nama, kono, chi wara e kore. Un Bamana deve passare rispettivamente attraverso tutte e sei i livelli di iniziazione per essere considerato un uomo completo con una visione completa degli insegnamenti e delle tradizioni ancestrali.

Ogni società di iniziazione ha il proprio tipo di maschera associato (per lo più zoomorfa, cioè basata su forme animali) tra cui i copricapi agricoli di antilopi chi wara (chiamato anche ci wara / tyi wara che significa ‘animale selvatico al lavoro’) dyo. L’obiettivo principale del chiwara dyo è quello di educare gli uomini alle migliori pratiche agricole e di onorare Chi Wara, l’eroe culturale dei Bamana, che ha creato le conoscenze relative alla coltivazione della terra ai Bamana. I membri del chi wara dyo si esibiscono in danze mascherate non solo per celebrare il loro mito, Chi Wara, ma anche per garantire la fertilità dei loro campi e pregare gli dei per un buon raccolto. Le celebrazioni vengono utilizzate anche per riconoscere pubblicamente l’esperienza degli agricoltori di successo.

Le antilopi scolpite sono conosciute come Chiwara o  come “Tijwara”“la bestia che lavora” (“tij”: lavoro, “wara”: animale selvatico). Ricordano un essere mitico, metà uomo e metà animale, che in un passato leggendario insegnò all’uomo come coltivare la terra. Ma quando il grano abbondava, gli uomini cominciarono a sprecarlo. “Tijwara” si seppellì nel terreno e gli uomini, dopo averlo perso, scolpirono una scultura in sua memoria. “Tijwara” appare in coppie, una figura maschile ed una  femminile, scolpite in legno e fissate ad un copricapo di vimini. I ballerini, curvi  su bastoni di legno a simulare le zampe anteriori dell’animale, erano  erano completamente nascosti da mantelli di fibre vegetali. Il significato centrale di “tijwara” originariamente era quello di incoraggiare la coltivazione collettiva della terra con la zappa. Di conseguenza si esibivano in tre occasioni: sarchiatura competitiva, danze di gioia dopo il lavoro collettivo sul campo e celebrazione annuale della società di iniziazione. 

The name Sogonikun is given to a type of crest and masked figure that appeared in Wasolon and was adopted in neighboring regions. Like the Ci-wara, these crests are characteristic of a village association (ton). They appeared in the village or in the fields during the competitions in which the peasants were engaged. Groups of itinerant dancers could go from village to village (see P. Imperato, 1981). (see Bambara, Rietberg Museum 2002 page 221 figure 207

The social, economic and spiritual lives of Bamana men, in Southwestern Mali, are governed by six initiation societies collectively known as dyow (sing. dyo). The six societies are n’domo, komo, nama, kono, chi wara and kore. A Bamana man must pass through all six initiation societies respectively to be considered a rounded man with full insight into ancestral teachings and traditions.

Each initiation society has its own associated mask type (mostly zoomorphic, i.e. based on animal forms) including the chi wara (also called ci wara / tyi wara meaning ‘labouring wild animal’) dyo’s antelope agriculture headdresses. The main aim of the chi wara dyo is to educate men on farming best practices and to honour Chi Wara, the cultural hero of the Bamana, who thought the skills of land cultivation to the Bamana. Members of the chi wara dyo perform dances with masquerades to not only celebrate their hero, Chi Wara, but to also ensure the fertility of their fields and to pray to the gods for a good harvest. The celebrations are also used to publicly acknowledge the expertise of successful farmers.

NOTE: The circumcised youth ton associations and the voluntary gonzon society also make use of headdresses similar to chi wara called n’gonzon koun.

Fonte Imodara.com 

The carved antelopes are known as Chiwara or “tijwara” – “the beast who labors” (“tij”: work, “wara”: wild animal). They recall a fabulous being, half man, half animal, who in legendary past thaught man how to cultivate the earth. But as grain grew abundant, men began to waste it. “Tijwara”buried himself in the ground, and men, having lost him, carved a sculpture in his memory.

“Tijwara” appear in male and female pairs on basketry caps. The dancers were bent over forelegs of wooden sticks and were completely hidden by cloaks of plant fibre.

The central meaning of “tijwara” originally was to encourage the collective farming of land with the hoe. Accordingly they performed on three occasions: competitive weeding, dances of joy after the collective field work was done and at the annual celebration of the initiation society.